FDP61_archivio_film_2020

2020
61° edizione

61° Festival dei Popoli - L'archivio completo dei film e delle proiezioni dell'edizione 2020

A Way Home
Dans La Maison

Regia: Karima Saïdi

Belgio, Francia, Marocco, Qatar, 2020, 90’

Dopo anni di distanza, la regista torna a occuparsi della madre Aicha, ormai malata di Alzheimer: seguendo i vagheggiamenti dell’anziana, la figlia trova un modo per stare al suo fianco e far affiorare poco a poco la dolorosa storia della sua famiglia. Tra Tangeri e Bruxelles, la madre ha cresciuto quattro figli, senza un marito al proprio fianco, in anni in cui veniva additata come “la divorziata”. Le chiacchiere della gente hanno da sempre pesato sulla piccola Karima, ma ancora di più la drammatica scomparsa dei suoi fratelli maggiori. La regista realizza un’opera intima e struggente sul rapporto tra madre e figlia, che riesce a tessere la complicata trama della migrazione marocchina, l’alienazione del sentirsi tra due culture e l’inesorabile separazione tra generazioni. Utilizzando in maniera potente l’immagine statica nel ritrarre la madre e la mobilità di sguardo per la cieca peregrinazione alla ricerca di un luogo natio, il film si compie nel cogliere la riappropriazione del senso profondo della parola “casa” in punto di morte, mantenendosi in equilibrio tra la leggerezza del gesto e la profondità del sentimento.


Divinations
Divinazioni

Regia: Leandro Picarella

Italia, Francia, 2020, 84'

Le storie parallele di Moka, un giovane artigiano di origini marocchine, e Achille, un vecchio cartomante, un tempo volto celebre delle TV regionali. Il primo, ispirato nel sogno dalle parole di Empedocle, scruta e sperimenta nel cuore di una fonderia i segreti della trasformazione dei metalli. L’altro ritorna alla vita civile dopo un lungo periodo di detenzione, deciso a reinserirsi in società. Dovrà fare i conti con problemi di salute e un’umanità che, benché trasformata, si rivolge ancora a maghi e cartomanti per risolvere i propri problemi o per rincorrere il colpo di fortuna. Ai margini di un mondo in dissoluzione, le traiettorie esistenziali dei due protagonisti si sfiorano, poli opposti e coincidenti del sentire magico, parti di quel sentimento millenario di cui l’umanità avverte la presenza e il bisogno. Dopo Triokala, Picarella racconta una nuova pagina di un Sud ancora impregnato di magia in cui realtà e finzione, passato e presente, verità e menzogna si mescolano in un rituale di purificazione collettivo. Un rituale esoterico che è anche quello di un’alchimia cinematografica in grado di restituire forma fluida e plasmabile al magma dell’esistenza e delle sue credenze.

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Downstream To Kinshasa
En Route Pour Le Milliard

Regia: Dieudo Hamadi

Repubblica Democratica del Congo, Belgio, 2020, 90’

Nel 2000 la città congolese di Kisangani fu teatro di scontri tra Rwanda e Uganda che lasciarono dietro di sé migliaia di morti e feriti, oltre a ingenti danni. Vent’anni dopo, il conflitto e i suoi reduci sembrano essere stati dimenticati dalla società congolese, ma l’Associazione delle Vittime della Guerra dei Sei Giorni continua a lottare con ostinazione per i risarcimenti e contro l’oblio delle sofferenze vissute. Dieudo Hamadi ne accompagna i componenti quando decidono di recarsi nella capitale Kinshasa, affrontando i pericoli del fiume Congo per reclamare la propria dignità a uno stato che li ignora. In questo viaggio le vittime si trasformano in persone che lottano per una causa, eroi che nonostante le menomazioni superano le difficoltà e l’indifferenza spinti dalla propria vitalità e dal senso di giustizia. Il regista li affianca nella lotta mosso dall’urgenza della loro causa, filmando spesso in condizioni estreme, con un forte senso di partecipazione umana e politica nella battaglia per la memoria collettiva. Con uno stile diretto e empatico, che coglie tanto la forza come le contraddizioni dei protagonisti, Hamadi firma un ritratto drammaticamente incarnato del Congo di oggi.

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Fadma: Even Ants Have Wings
Fadma: Même Les Fourmis Ont Des Ailes

Regia: Jawad Rhalib

Belgio, Marocco, 202, 80'

In un piccolo villaggio berbero nel nord del Marocco giungono Fadma e suo marito, originario del villaggio ma che ora vive con la famiglia a Casablanca. Fin dal suo arrivo, Fadma inizia a mettere in discussione il costume ancestrale del villaggio che vede le donne lavorare e occuparsi della famiglia e dei figli, mentre gli uomini, quando non lavorano nei campi, passano ore a oziare al caffè. Fadma non accetta questa situazione e lentamente organizza la rivolta delle donne del luogo, mentre gli uomini assistono sgomenti alla crisi dei loro secolari privilegi. Ben presto si arriverà al confronto finale. Girato con uno sguardo attento e preciso, capace di costruire una narrazione che ha i ritmi tipici della commedia, il film cattura i conflitti tra sguardi e pratiche di vita che coesistono all’interno di un paese come il Marocco, ma che inevitabilmente si riverberano ben al di là dei suoi confini: “Rhalib offre una visione acuta di una società marocchina in fase di cambiamento che è al tempo stesso piena di umorismo e teatralità. Fadma, con la sua arguzia e la sua ferocia, emerge come un agente liberatorio per un sano cambiamento, che in qualche modo fa muovere le cose in una comunità che è sempre rimasta immobile” [Tara Hakim].

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Lonely Rock
Piedra Sola

Regia: Alejandro Telémaco Tarraf

Argentina, Messico, Qatar, Gran Bretagna, 2020, 72'

Nella regione andina del Puna, nel nord dell’Argentina, a oltre 4000 metri sul livello del mare, Ricardo Fidel, un pastore di lama, segue le tracce di un puma invisibile che minaccia il suo gregge. Per trovare l’animale, sfuggente all’occhio umano, intraprende un viaggio mistico che lo riporta a ricongiungersi con la devozione alla Pachamama e il sapere ancestrale dei suoi avi. Primo lungometraggio dell’argentino Alejandro Telémaco Tarraf, Piedra sola è un film ipnotico e stupefacente, sin dalle prime immagini. La splendida fotografia firmata da Alberto Balazs, con l’uso di lenti anamorfiche, riporta alla dimensione epica e solenne di un cinema a metà strada tra il documentario etnografico e la finzione: il racconto della vita quotidiana di un pastore e della sua lotta per sopravvivere in una comunità remota, infatti, assume ben presto i tratti di un viaggio spirituale. I rituali e i sacrifici, messi in scena di fronte alla camera, diventano materia al servizio di una narrazione universale sulla vita e sulla morte, un’odissea andina che si confronta con elementi materiali e soprannaturali.

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This Rain Will Never Stop

Regia: Alina Gorlova

Ucraina, Lettonia, Germania, Qatar, 2020, 100'

In fuga dal conflitto siriano, il giovane curdo Andriy approda in Ucraina: un nuovo teatro di guerra, un nuovo universo diviso fra guerra e pace. Il destino ha sparpagliato ovunque la sua famiglia, in Iraq e in Germania, e non solo lui – che lavora come volontario della Croce rossa – ma tutte le persone alle quali è legato abitano terre desolate, zone incerte dell’anima e del cuore, segnate da altre guerre o dal vuoto di una vita senza affetti, immaginari, prospettive. Il grigio e la sospensione vissuto dai personaggi di This Rain Will Never Stop è lo stesso espresso dalle immagini in bianco e nero di Alina Gorlova, scarne, essenziali, crude come la verità di ogni conflitto e flebili come le emozioni di chi sopravvive all’orrore o al vuoto. La neve, gli alberi spogli, la linea piatta dell’orizzonte, i paesaggi urbani, il deserto: tutto nel film appartiene a un limbo dell’esistenza che spetta al cinema raccontare e rendere vivo, grazie alla sua capacità di mettere in relazione le persone e le cose attraverso il montaggio. Come un miracolo, un dono, forse un semplice gesto di umanità e consapevolezza.

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Ana E Maurizio

Regia: Catarina Mourão

Portogallo, 2020, 60’

Ana è una pittrice, un’artista irrequieta, curiosa e desiderosa di viaggiare, di nutrirsi di altri spazi. Un giorno scopre un libro scritto da suo zio, Maurizio. Si tratta di un diario di viaggio in Congo, scritto secondo la moda degli esploratori europei del XIX e XX secolo. Maurizio osserva le pratiche di vita in Congo e le riporta nel libro che è anche ricco di illustrazioni e disegni, così come di aneddoti e spunti personali; Ana lo legge e osserva a sua volta come suo zio descrive un mondo radicalmente altro, da quale prospettiva, da quale consapevolezza. Il film diventa un gioco di sguardi che permette in un senso tutto cinematografico di far incontrare due personaggi lontani nel tempo e nello spazio, come la pittrice Ana e il viaggiatore Maurizio, ma al tempo stesso vicini, per la comune passione per l’osservazione del mondo, per la comune curiosità per ciò che è altro, che è altrove. Il film racconta questo viaggio alla scoperta di sé attraverso lo sguardo di un altro, e lo fa tramite una sensibilità particolare, una intimità che permette allo spettatore di accompagnare Ana in un viaggio nel tempo che è anche un viaggio interiore e spirituale.


Bicentenario

Regia: Pablo Álvarez-Mesa

Colombia, Canada, 2020, 47’

Nel 1819 l’esercito repubblicano condotto da Simon Bolívar attraversò le montagne in una cavalcata eroica che portò alla liberazione di Bogotà dal vicereame spagnolo. Duecento anni dopo l’impresa, la figura del "Libertador" sembra ancora vivere in un’aura di misticismo politico, che contrasta con le violente contraddizioni irrisolte di un paese ancora in fiamme: la Colombia. Bicentenario ripercorre, dopo due secoli, i luoghi attraversati da Bolívar nel corso della sua campagna militare alla ricerca del suo spirito e delle tracce del suo passaggio. Pablo Álvarez-Mesa dà vita a un’esperienza sensoriale pregevole per l’equilibrio tra la dimensione evocativa (in senso stretto: la registrazione della voice over riprende la tecnica utilizzata dagli spiritisti per comunicare con il regno dei morti) e quella politica. Particolarmente delicato il riuso delle immagini d’archivio dell’assalto al Palacio de Justicia di Bogotá, un evento profondamente destabilizzante per la storia della Colombia, che regala una delle immagini più significative del film: la statua di Bolívar, inerme, osserva l’esercito dello stesso paese a cui ha donato la libertà mandare in fiamme la memoria giuridica dello Stato.

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Dissipation
Dissipatio

Regia: Filippo Ticozzi

Italia, 2020, 40’

In un desolante oltremondo, un uomo osserva se stesso esistere nella ripetitività di un tempo sempre uguale. Stralci di comunicazioni e sirene punteggiano il silenzio di una vita sospesa, misteriosamente a proprio agio in uno stato di confinamento imposto e, forse, desiderato. Filippo Ticozzi racconta con sguardo composto e impassibile i mesi del lockdown in una cittadina del nord Italia puntando la camera contro la propria persona: i rituali e le abitudini attraverso cui ciascuno struttura la propria irrinunciabile solitudine, gli oggetti che ne costellano l’io e se ne fanno propaggine (in)dispensabile, i pensieri che diventano improvvisamente solidi e lapidari, le intenzioni che si arrestano di fronte al vuoto del senso. Tra i tanti film improvvisati e futili realizzati nei momenti più acuti della recente crisi sanitaria, un’opera lucida e necessaria che si interroga a fondo sulla dimensione sociale di un virus che si annida negli strati più oscuri dell’animo umano. E nella frammentazione caleidoscopica frutto di una dolorosa rifrazione del sé, il cineasta-personaggio afferma la propria dimensione spettrale rivendicando lo spreco del tempo e il fallimento della volontà.


Forensickness

Regia: Chloé Galibert-Laîné

Francia, Germania, 2020, 40'

Una giovane ricercatrice ripercorre la caccia all’uomo condotta sul forum reddit.com dopo gli attacchi terroristici del 2013 a Boston, ispi - randosi a Watching the Detectives di Chris Kennedy, il suo film diventa una commedia poliziesca che rivela come l’arte dell’ermeneu - tica sia quella, cinematografica, del montag - gio, adeguando sapientemente l’esposizione dei suoi strumenti universitari fatti di citazioni, archivi, prestiti e utilizzi all’estetica di un gene - re cinematografico particolare: il film saggio. Nel processo, sotto l’egida di Rancière, graffia la “grande ermeneutica” marxiana e freudia - na, così come i loro avatar sociologici e strut - turalisti degli anni Sessanta.

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Moth
Pyrale

Regia: Roxanne Gaucherand

Francia, Belgio, 2020, 50'

Un’invasione di farfalle non autoctone sta disturbando la tranquillità degli abitanti della Drôme e dell’Ardèche: arrivate in Europa a causa dei grandi trasporti di vegetali dalla Cina, queste farfalle bianche – che sembrano rinascere dalle ceneri – infestano i giardini e i boschi, generando una vera e propria caccia da parte dei locali. Lou, una diciottenne in procinto di lasciare la vita di provincia, trascorre l’ultima estate con la sua migliore amica, Sam, sentendo esplodere una passione tenuta a lungo sedata. La storia di questo amore adolescenziale s’intreccia alla vita effimera della "pyrale", eternamente attratta dai bagliori della luce, pronti a distruggerla con facilità. La regista intreccia con estrema eleganza documentario e finzione, accogliendo nella narrazione i divertenti, quanto inutili, espedienti inventati da ciascuno per far fronte all’invasione, nel silenzio generale delle autorità deputate. Solo le stelle, con i loro desideri, sapranno unire per un attimo in armonia la pelle rilucente delle giovani e l’impalpabile insetto.

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Turkish Riviera
Türkische Riviera

Regia: Senem Göcmen

Germania, 2020, 54'

Delle immagini in VHS rievocano un’estate dell’infanzia trascorsa in riva al mare: una bambina, Senem, visita per la prima volta le coste della Turchia, il paese natale dei suoi genitori. La sua è una famiglia di Gastarbeiter – “lavoratori ospiti” – emigrati nella Germania Ovest durante il boom economico del secondo dopoguerra, ma Senem si è sempre sentita tedesca. Quando i suoi genitori decidono di fare ritorno in Turchia per ricongiungersi al resto della famiglia, la regista comincia a interrogarsi sulla propria identità. Turkish Riviera è una riflessione poetica sulla memoria familiare e l’identità, partendo dall’eredità delle migrazioni. La materia filmata (perlopiù in pellicola) dialoga liberamente con le testimonianze e i racconti dei suoi familiari: scavando nelle loro parole, la regista si insinua in un territorio sia intimo che collettivo, in cui convivono diverse dimensioni del tempo e della memoria. È dal confronto con le tre diverse generazioni di guest-workers che Senem Göcmen traccia la propria personalissima heimat: un libero intreccio di tanti piccoli frammenti di memoria familiare, sotto forma di luci, suoni, ricordi e presenze.

A Lack Of Clarity

Regia: Stefan Kruse Jørgensen

Danimarca, 2020, 22’

L’illuminazione pubblica che squarcia la notte della città moderna. L’insonnia rischiarata dallo schermo del computer. Uno spazio urbano dove non si può più distinguere il giorno dalla notte. La riflessione di Stefan Kruse attraversa i cambiamenti della città contemporanea, l’estensione dei meccanismi di controllo sociale, l’evoluzione delle tecnologie digitali per porci davanti alle frontiere di una progressiva espansione del campo del visibile – e del controllabile. Appropriandosi, come in The Migrating Image, di video trovati in rete, il regista costruisce un saggio rigoroso e complesso sullo statuto dell’immagine nella società della sorveglianza. Kruse interroga un’immagine digitale che disseziona e cataloga tanto le persone quanto il paesaggio in un’operazione che, cancellando i riferimenti che rendono possibile la comprensione umana, riduce la rappresentazione della complessità del reale unicamente al controllo e alla vigilanza. Mettendo in discussione le radici storiche di un meccanismo di potere che è allo stesso tempo economico e politico, il regista porta la riflessione sulla visibilità e il controllo fino ai limiti della relazione umano/non-umano, nella sfera più intima del pensiero e del sogno.

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A Revolt Without Images
Una Revuelta Sin Imágenes

Regia: Pilar Monsell

Spagna, 2020, 14’

Un evento quasi dimenticato, una rivolta capeggiata da donne nella Spagna del Seicento. Nessuno ricorda i nomi delle protagoniste di quella vicenda, tantomeno esistono delle immagini. “Una delle rivolte meno conosciute della nostra Storia, 'La rivolta del pane', fu guidata da donne a Cordoba durante il mese di maggio del 1652. Non conosciamo i volti e i nomi di quelle donne. Né c’è alcuna loro immagine. Come recupera - re i gesti di resistenza di chi è rimasto invisibile?” [P. Monsell]. Ma il cinema può interrogare i volti, creare dei montaggi, esplorare delle possibilità. Mentre il racconto prosegue, ecco allora palesarsi di fronte ai nostri oc - chi una serie di volti e di corpi femminili: volti di donne che emergono dalla pittura di Julio Romero de Torres, volti di donne contemporanee che stanno osservando quei quadri. Una mostra, una pinacoteca creano allora un improvviso cortocircuito tra passato e presente, tra i volti senza nome che appaiono ora di fronte allo spettatore e i volti senza nome che rimangono invisibili. Un film che si pone come riflessione poetico-politica sulle immagini della storia e sul potere del cinema.

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Bubble

Regia: Eleanor Mortime

Gran Bretagna, 2020, 13’

Nell’East End di Londra, c’è un posto magico in cui il tempo è sospeso. Il negozio Terry’s Tropicals è un vero e proprio acquario: tra le corsie, circondati dai più incredibili pesci tropicali, si aggirano persone che mimano lo stesso movimento ondeggiante. Sono uomini e donne soli, le cui esistenze si sfiorano tra quei corridoi, spesso unico luogo di svago e di (seppur trattenuta) socialità. Nell’arco di una giornata tra un’apertura e una chiusura, l’attenzione si sposta dal negozio alle singole case degli acquirenti, in cui a trionfare è la loro personale collezione che, in maniera sorprendente e curiosa, rispecchia la propria personalità e persino la propria fisionomia. Dopo Territory, Eleanor Mortimer descrive con sguardo perspicace e ironico un altro incontro tra uomo e animale, capace di ridisegnare la topografia di una città e di ribaltare i rapporti di forza tra le due specie. Di fronte all’attualità del lockdown, non ci può lasciare indifferente questa improvvisa “bolla” in cui per un attimo è l’uomo a essere scrutato dai pesci in un gioco di solitaria sopravvivenza.

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Hide-And-Seek
Cligne-Musette

Regia: Tommaso Donati

Francia, Svizzera, 2020, 21’

Cligne-musette, un termine arcaico per descrivere il gioco del nascondino. Un cortometraggio ambientato in una periferia anonima di una piccola città di provincia, tra i bambini che giocano. In quegli spazi, in questa strana atmosfera si aggirano delle storie, dei destini forse che accomunano quei bambini, quei personaggi che vediamo aggirarsi nei luoghi del film. È l’inizio di un film che non riguarda solo questo o quel personaggio, ma che si rivela essere una narrazione collettiva, di chi abita ai margini di una città, di chi vive sapendo di essere invisibile, condannato forse all’abbandono, alla solitudine. Un film che mostra come si possa raccontare una vicenda attraverso uno sguardo attento alle atmosfere, agli spazi, alle forme di vita che abitano un luogo; uno sguardo che lascia allo spettatore il compito di trovare un racconto, per mezzo delle tracce disseminate nelle immagini. È in fondo questo il senso, il piacere e la malinconia di un gioco antico come nascondino, come rivela la frase di André Gide in apertura: “Come il bambino che gioca a nascondino, che certo non vuole che lo si trovi, ma che almeno lo si cerchi”.

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The Fantastic

Regia: Maija Blåfield

Finlandia, 2020, 27’

In un Paese come la Corea del Nord, in cui appena l’1% della popolazione ha accesso alle informazioni riguardanti il mondo esterno, il cinema può diventare una porta spalancata verso tutto ciò che è altro e non è dato conoscere. A partire dagli anni ’90 del secolo scorso, le videocassette importate illegalmente dal - la Cina o da stati europei che non sapevano come smaltirle in termini di rifiuti hanno assolto per molti al ruolo di rivelare un universo altrimenti ignoto, sia nelle sue dinamiche umane e relazionali che in quelle di sviluppo economico e tecnologico. “La prima volta in cui ho visto un cellulare è stato in Matrix” dichiara uno degli intervistati, il cui racconto si dipana fuori campo mentre sullo schermo scorrono immagini di aree liminali e territori demilitarizzati, i cui confini geografici sono anche quelli che separa - no la routine del quotidiano dalle frontiere inesplorate della fantasia. Un film di grande originalità che si interroga sul valore residuale dell’immagine cinematografica e sul suo portato di realtà, ma anche sul cinema come strumento di colonizzazione dell’immaginario in mano al sistema capitalistico e al suo potere mercificatorio.

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Why?
Apiyemiyeki?

Regia: Ana Vaz

Portogallo, Brasile, Francia, Paesi Bassi, 2020, 30

Partendo dalle architetture futuriste di Brasilia, si dipana un viaggio nel cuore dell’Amazzonia, alla ricerca di chi ha provato a sostenere la rivolta dei popoli nativi nel momento in cui la costruzione della grande autostrada stava in realtà distruggendo un intero ecosistema. Basato sugli archivi dell’educatore Egydio Schwade – conservati nella Casa da Cultura de Urubuí – che raccolgono più di 3000 disegni realizzati dai Waimiri-Atroari durante il loro primo processo di alfabetizzazione, il film ricostruisce una cultura andata perduta, con un incisivo utilizzo della sovrimpressione tra gli spazi reali e le tracce lasciate sulla carta dai loro abitanti. Su un raffi - nato tessuto sonoro, risorgono gli echi di una civiltà cancellata dalla Storia, grazie ai segni – spesso colorati – traccia tangibile di quegli uomini e quelle donne totalmente rimossi dal - la memoria collettiva. Un tuffo nel cuore di un popolo che, di fronte al genocidio operato dai bianchi nei loro confronti, non ha mai smesso di domandarsi: Apiyemiyekî? Perché?

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Aylesbury Estate

Regia: Carlotta Berti

Italia, 2020, 91’

Aylesbury Estate è uno dei più grandi complessi di public housing di Londra, costruito tra gli anni ‘60 e ‘70 sulle macerie delle vecchie case popolari nel South East della capitale britannica. Inizialmente eletta come modello di una nuova politica abitativa per l’Inghilterra, è divenuta simbolo di disagio e abbandono, in virtù anche dei tentativi fallimentari della politica (a partire da Tony Blair) di dare una nuova vita al quartiere. Carlotta Berti mostra, dall’interno, la lotta dei residenti che si sono organizzati per difendere le loro case dai numerosi tentativi di speculazione, svelando non soltanto uno sguardo sul processo di gentrificazione che interessa le più grandi città europee, ma offrendo anche un ritratto intimo e profondo delle persone che vivono nel complesso e che non vogliono andare via: Aysen, l’attivista combattiva originaria della Turchia; Piers, fratello dell’ex leader laburista Corbyn; ma soprattutto Frederick, testimone diretto della demolizione delle vecchie case popolari e della costruzione del grande complesso e che ora, dopo una vita travagliata in cui ha perso tutto, assiste impotente dal suo appartamento a un nuovo cambiamento epocale.

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Book of Jonah
Il Libro di Giona

Regia: Zlatolin Donchev

Italia, Bulgaria, 2020, 71’

Massimiliano conduce la sua vita all’interno di una piccola automobile che trabocca di libri e oggetti. La camera lo osserva dall’esterno del veicolo: il suo corpo, all’interno dell’abitacolo, si confonde con i riflessi sui vetri del parabrezza; una natura fatta di grigiore e alberi spogli, che contrasta con i colori intensi e la luce viva delle sue fotografie, scattate con il telefonino. Massimiliano rimane sulla soglia della sua auto, ma sembra avere un’ultima opportunità per riprendere in mano la propria esistenza. Riuscirà a riemergere dal suo ventre di lamiera? Zlatolin Donchev offre, nel suo primo sorprendente lungometraggio, il ritratto di una vita fragile in uno stato di sospensione tra il mondo esterno e quello interiore, fatto di letture, sogni e visioni notturne. Filmato in maniera delicata e raffinata, il gioco di riflessi sul parabrezza dell’auto è la porta di accesso a una relazione intima che si sviluppa in sede di montaggio con le fotografie scattate da Massimiliano con il cellulare, piccole tracce di un’esistenza che passa sul mondo in maniera dolce e fugace.

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Bosco

Regia: Alicia Cano Menoni

Italia, Uruguay, 2020, 82’

Bosco è un luogo reale e insieme immaginato, fuori dal tempo e radicato nella terra, che vive sospeso tra il presente degli ultimi abitanti e la memoria degli emigrati. Alicia Cano Menoni parte dai racconti di suo nonno per seguire il filo di un legame che attraversa le generazioni e le distanze, la connessione intima con le origini che dà senso alla propria storia. La traccia che segue, in questo viaggio, è quella dei ricordi impossibili del non - no, che non ha mai visto il paese natale ma che può evocarne trasognato ogni angolo, ogni suono, ogni casa. Quando arriva a Bosco, la regista rimane impigliata per dieci anni nella fascinazione per questo paesaggio dove i sogni del nonno prendono corpo, dove nella relazione con gli abitanti si crea un ponte quasi magico con il passato e con un mondo che sta scomparendo. Muovendosi tra Montevideo e questo paese remoto che sembra prepararsi a essere di nuovo assorbito dalla natura, la regista crea una tessitura filmica fortemente suggestiva in cui il cinema si trasforma nello spazio di incontro tra le generazioni, tra la memoria e l’onirico, tra due continenti distanti ma uniti da legami di migrazione ancora carichi di emozioni.

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Eskere

Regia: Alessandro Abba Legnazzi

Italia, 2020, 50’

Chi sono i nuovi italiani? Come vedono il mondo? Che riferimenti hanno? Queste sono solo alcune delle domande a cui, con estrema modestia, prova a rispondere Alessandro Abba Legnazzi, già autore di diversi documentari e da sempre attento alla formazione e allo sguardo dei ragazzi: lo fa con un film-laboratorio in cui vengono accolti i racconti e le visioni di quattro adolescenti Nova Afia Nasir, Atika Sharkar, Miriam Ben Taleb e Rim Shahen, che provengono da contesti culturali diversi e si sono ritrovate a crescere a Brescia. Un viaggio non solo tra le mura domestiche delle ragazze, in cui collidono visioni del mondo e generazioni lontane, ma anche nei loro immaginari fatti di balletti e confessioni, aperti a incantate epifanie visive e a confronti di grande spessore. L’estrema libertà concessa dall’autore (che cofirma il film insieme al gruppo di filmmaker in erba) è forse la vera proposta del film per il futuro: essere disposti ad ascoltare per costruire insieme un altro Paese possibile.

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L’occhio Di Vetro

Regia: Duccio Chiarini

Italia, 2020, 86’

26 aprile 1945. Rintanato in un paesino della Valtellina, il quindicenne pisano Ferruccio Razzini combatte in difesa della Repubblica Sociale Italiana senza sapere che Mussolini è già morto e che l’Italia è stata appena liberata. Nel suo diario racconta la storia del padre Giuseppe, eroe della Prima guerra mondiale e fervente fascista, e quella delle sorelle Liliana e Maria Grazia, rispettivamente sposate con un fascista e un partigiano comunista, attive sui fronti opposti della guerra civile. Dopo Hit the Road, nonna, Chiarini indaga un altro versante della storia della propria famiglia a partire dalle pagine scritte dal prozio: materiali d’archivio, fotografie e lettere contribuiscono a comporre un mosaico nel quale un momento cruciale della Storia d’Italia prende forma attraverso la lente di complesse dinamiche familiari. Confermando una raffinata cifra stilistica in grado di tenere la narrazione in equilibrio tra commedia e tragedia, il regista scava nel rimosso di un trascorso intimo e collettivo al tempo stesso, in un viaggio appassionante alla ricerca di un luogo scomparso o forse solo diventato altro, nelle mutevoli sorti di un Paese che non ha ancora finito di fare i conti con i fantasmi del proprio passato.

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Lost And Found In Paris
L’île De Perdus

Regia: Laura Lamanda

Italia, Francia, 2020, 74’

Dove finiscono tutti gli oggetti perduti in giro per la città? Se vi trovate a Parigi, dovete rivolgervi al Service des Objets Trouvés, in cui tutto il giorno si susseguono persone che hanno smarrito le cose più impensabili durante corse quotidiane per la metropoli. Ad accoglierli, con pazienza e metodo, ci sono una serie di impiegati, gli unici lavoratori visibili al pubblico di un sistema ben più complesso. Alle loro spalle si celano una serie di stanze in cui sono archiviati (o sono in via di etichettatura) milioni di oggetti che rappresentano la nostra società. Carte d’identità, chiavi, quaderni, fotografie, caschi, gioielli… Tanti restano abbandonati, altri vengono riportati al mondo dai loro proprietari, carichi di gioia nel momento del ritrovamento. Con occhio wisemaniano, la regista trova un angolo inedito attraverso il quale descrivere la popolazione di una grande città e il suo rapporto con gli oggetti. Si delinea un catalogo di beni materiali caricati di importanza soltanto dal loro risvolto simbolico e un ritratto sospeso di un’umanità in cerca di una nuova definizione.

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The Red Army
L’Armée Rouge

Regia: Luca Ciriello

Italia, 2020, 60’

L’Armée rouge è una comunità, un gruppo di amici guidato da Idriss Koné, in arte Birco Clinton, che si riunisce intorno alla musica coupé decalé, il pop della diaspora ivoriana. Birco incarna lo spirito di questa musica nata dalla crisi e dall’emigrazione, che celebra l’astuzia, la capacità di farsi strada (soprattutto all’estero) e godersi la vita facendo festa. Con un’osservazione ravvicinata, lucidamente etnografica, Luca Ciriello ci racconta la sua storia per fare un ritratto inedito della diaspora africana in Italia, immergendoci in una dimensione normalmente invisibile delle nostre città. Un mondo che negli interstizi e nelle periferie è in grado di costruire vincoli di comunità straordinariamente creativi, in cui la festa diventa l’occasione per creare identità e affermare la propria dignità a fronte di condizioni precarie. Il film ci mostra la risposta sorprendentemente vitale a questa situazione, il cortocircuito tra codici, tradizioni e manifestazioni culturali diversissime (dal pop africano allo spirito napoletano, dal mondo post-coloniale alle stories di Instagram) che confluiscono nello spirito esuberante e post-moderno dell’Armée rouge.

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That’s All
Das It Alles

Regia: Tizza Covi, Rainer Frimmel

Austria, 2001, 98’

Ritratti di famiglie in un interno: così si racconta la vita che scorre lentamente a Jasnaja Poljana, un piccolo villaggio russo nella regione di Kaliningrad, nell’ex Prussia nord orientale. Dopo il 1945, l’amministrazione sovietica popolò questa zona con persone provenienti da diverse repubbliche sovietiche. Tra questi nuovi coloni ci sono il signor e la signora Deis, provenienti dal Kazakistan, che, come i loro vicini, hanno cercato di trarre il meglio dalle nuove circostanze. C’è il signor Benz che costruisce aerei e trattori, e ci sono Nadia e Alexsej che vivono nella zona dagli anni Cinquanta. Gli abitanti del villaggio parlano della vita quotidiana, delle loro origini, delle loro speranze e dei loro ricordi. Su questo paese regna una sensazione di sradicamento e d’incertezza per il futuro, mentre fuori la natura prosegue instancabile il suo ciclo. Ripresi in eleganti inquadrature fisse, tanto da sembrare delle fotografie parlanti, i protagonisti si aprono nel manifestare una sensazione d’impotenza, ben lontana dallo spirito indomito del colono, ma più vicina a chi è stato una semplice pedina del potere.


Babooska

Regia: Tizza Covi, Rainer Frimmel

Austria, Italia, 2005, 100’

Babooska ha vent’anni, un’energia infinita e al contempo non molti progetti per il futuro. La sua vita è legata al circo itinerante in cui lavora con i suoi genitori: ma gli spettacoli serali sono solo una piccola parte della sua vita da adolescente, presa tra il prossimo matrimonio della sorella maggiore, Naike, e i compiti da far fare alla sorellina, Azzurra. Mentre la sua roulotte si sposta di città in città, il tempo scorre veloce senza portare troppe risposte ai suoi interrogativi sul futuro. Seguendo per un anno la vita della giovane protagonista, la coppia di documentaristi realizza un’indagine sulla quotidianità dietro le scene del piccolo circo italiano: tra la chiusura della gente di provincia, sempre più distratta dai centri commerciali, e la difficoltà di una scelta di vita radicale, in perenne movimento, Babooska diventa l’emblema di una giovinezza troppo preoccupata dall’istante per potersi abbandonare ai propri sogni. Solo sulla scena si concede un sorriso, per quel pubblico da cui dipende la sua prossima mossa.


The Little One
La Pivellina

Regia: Tizza Covi, Rainer Frimmel

Austria, Italia, 2009, 100’

La cinquantenne Patty trova una bambina di due anni, Asia, abbandonata nel giardino pubblico di fronte a dove è parcheggiata la sua roulotte. Convinta che la madre ritorni a prenderla al più presto, la donna porta a casa la piccola che alleva tra le preoccupazioni del compagno circense Walter e i guizzi di Tairo, quattordicenne che vive nel container accanto con la nonna. Così si ricrea una strana famiglia che per un po’ di tempo sopperirà a quella naturale della bambina. Partendo dalla diceria popolare che nel quartiere di San Basilio (sede di comunità nomadi e senzatetto) spariscano i neonati, la coppia di documentaristi ribalta lo stereotipo, facendo vivere a una bambina con una famiglia difficile un anno in una casa piena d’amore e d’accoglienza. Primo lungometraggio in cui i registi inseriscono un intero canovaccio di finzione entro cui far recitare i protagonisti, annettendo momenti rubati alle loro esistenze quotidiane. Un film magico, che vive dell’infanzia di Asia e Tairo, ma anche della trasparenza della coppia di anziani genitori adottivi, Patty e Walter.


The Shine Of Day
Der Glanz Des Tages

Regia: Tizza Covi, Rainer Frimmel

Austria, 2012, 90’

Philipp Hochmair è un giovane attore di successo che lavora per i più importanti teatri di Vienna e Amburgo. Passa le sue giornate a imparare nuovi testi, a provare e a esibirsi, perdendo gradualmente il contatto con la realtà quotidiana. Ma quando il vecchio zio Walter, pecora nera della famiglia e circense squattrinato, suona alla sua porta, qualcosa rompe la sua dorata routine di cui inizia a sentirsi prigioniero. Soprattutto quando si ritrova ad affrontare la tragica sorte della famiglia che abita accanto a lui: Victor, un giovane padre con due figli piccoli, non riesce più a far rientrare in Austria sua moglie senza un permesso di soggiorno. Iniziato come un film su tre uomini soli, Der Glanz des Tages è una riflessione su come il teatro abbia perso il suo legame “esperienziale” per diventare un perfetto ingranaggio del mondo dello spettacolo. Solo il circo, con i suoi trucchi bric-à-brac può sfidare la burocrazia di una politica ormai sconnessa dal bene comune. Il film più scritto dei due autori è un dramma da camera illuminato dalla presenza sorniona e gentile di Walter Saabel (vincitore del Pardo d’argento a Locarno).


Mister Universo

Regia: Tizza Covi, Rainer Frimmel

Austria, Italia, 2016, 90’

Tairo, giovane domatore di leoni, è in crisi: nonostante l’amore per la contorsionista Wendy, è preoccupato per le sue bestie che sono ormai molto anziane e stanno per morire. Quando perde il suo talismano, decide di intraprendere un viaggio attraverso l’Italia, da Roma a Milano, alla ricerca dell’uomo che glielo ha dato tanto tempo prima: il mitico Mister Universo, alias Arthur Robin. Solo lui potrà aiutarlo a decidere il suo destino. La coppia di registi torna a trovare il giovane Tairo, già co-protagonista de La pivellina, e confeziona un film basato su poche situazioni, estremamente semplici, che ben illustrino un passaggio d’età, una presa di distanza da madri e padri (reali o fittizi che siano) in favore di “un mago” che nonostante l'attuale debolezza fisica possa rinfrancare quella esistenziale del ragazzo. Come accade nel regno di Oz, la bufera che ha portato Dorothy lontano dal Kansas è pronta a riportarla a casa cambiata: senza alcun premio tangibile, ma con qualcosa che nessuno potrà più toglierle.


Notes From The Underworld
Aufzeichnungen Aus Der Unterwelt

Regia: Tizza Covi, Rainer Frimmel

Austria, 2020, 115’

Nell’ambiente della malavita viennese degli anni Sessanta c’è un gran disordine. In un controverso processo il cantante Kurt Girk e il suo leggendario amico Alois Schmutzer devono scontare la loro vicinanza al gioco di carte illegale “Stoss” con una lunga pena. I carismatici protagonisti, ormai prossimi all’ottantina, si aprono in un appassionante racconto di questo periodo ormai lontano, in cui Vienna pullulava di gangster e allibratori, di rapine e scommesse, di bische e club malfamati. Sopravvissuti a un periodo difficile, i due uomini – circondati da qualche altro eccentrico testimone – rievocano con precisione chirurgica gli eventi del “sottomondo”, incorniciati dai bar che oggi frequentano ed eternati da un rigoroso bianco e nero. Ogni parola diventa una chiave capace di aprire nuovi spiragli non soltanto sulle nebulose vicende del passato, ma anche su un’umanità nascosta dal buoncostume del presente. Un’appassionata lettera d’amore a una Vienna del passato che è anche un lucido ritratto sociale dell’Austria del dopoguerra.

AFERIM!

Regia: Radu Jude

Romania, Bulgaria, Repubblica Ceca, Francia, 2015, 108’

Valacchia, antica regione della Romania sud-orientale, anno 1835: il cavaliere rumeno Costandin e il suo giovane figlio danno la caccia per conto di un signore locale a uno schiavo rom sospettato di aver intessuto una relazione con la moglie del nobiluomo. Nel corso del viaggio dal sapore picaresco, i due incontrano genti di diverse etnie – ebrei, cristiani, turchi, russi, ungheresi – ciascuna con il proprio bagaglio di pregiudizi e le proprie storie di persecuzione. Insieme, padre e figlio saranno fautori e testimoni dell’ingiustizia e della violenza di un sistema ancora feudale. Atipico western europeo, contemplativo nella forma e spesso ironico nei toni, scritto a partire da un lungo lavoro di ricerca sui documenti ufficiali dell’epoca, ma ispirato anche alle canzoni popolari della tradizione balcanica. Al terzo lungo di finzione, Radu Jude avvia il lavoro di scavo nella storia rumena e la riflessione sul complesso legame fra memoria e rimozione, individuando lo spettro del genocidio all’origine della cultura europea.


The Dead Nation
Țara Moartă

Regia: Radu Jude

Romania, 2017, 83’

Origine, ascesa e affermazione della cultura antisemita nella Romania degli anni ’30 e ’40: Jude monta in successione gli scatti del fotografo ritrattista Costică Acsinte e li accompagna alla parole del diario di Emil Dorian, medico, scrittore e poeta che registrò nelle sue pagine l’emergere silenzioso ma implacabile di un sentimento di rivalsa nei confronti della popolazione ebraica, sfociato dopo l’alleanza con la Germania nazista e durante la guerra nella deportazione di migliaia di abitanti del fronte orientale. Una riflessione sulle responsabilità della società rumena nella messa in pratica dell’Olocausto, in cui alla decisione dal valore politico di recuperare una parte rimossa della storia nazionale fa eco una scelta di messinscena rigorosissima. Con un approccio il più oggettivo possibile, Jude cerca la verità dei mutamenti storici nella “freddezza” dei documenti d’epoca e afferma al tempo stesso l’ambiguità di ogni forma di rappresentazione, mai del tutto scevra da interpretazioni e revisioni. Chi sono i veri mostri della Storia? Come vestivano, dove abitavano, che volti avevano?


I Do Not Care If We Go Down In History As Barbarians
Îmi Este Indiferent Daca În Istorie Vom Intra Ca Barbari

Regia: Radu Jude

Romania, 2018, 139’

Mariana, giovane artista e regista teatrale, lavora all’allestimento in una grande piazza di Bucarest di uno spettacolo che ricostruisce una pagina dimenticata della storia rumena: la deportazione e lo sterminio di migliaia di ebrei nel periodo tra il 1941 e il 1942, quando il regime di Ion Antonescu conquistò la città di Odessa. Coinvolta nel progetto in ogni aspetto della sua vita pubblica e privata, Mariana si imbarca in infinite discussioni sul valore politico del suo lavoro; media con i committenti dell’opera e le autorità; litiga con alcuni membri della troupe, con le comparse e addirittura con il pubblico. Da un lato la donna accusa la società rumena di negazionismo, dall’altro è criticata per la visione eccessivamente semplificatoria che ha dei suoi connazionali. In bilico tra finzione e documentario, il cinema di Jude incontra il teatro, la museografia, la storiografia e l’arte contemporanea e illustrando il perenne contrasto fra Storia e arte – ma anche fra testimonianza e memoria, interpretazione e rimozione – racconta l’appassionante work in progress di uno spettacolo scomodo (e realmente messo in scena) da portare a termine contro tutto e tutti.


The Marshal’s Two Executions
Cele Două Execuții Ale Mareșalului

Regia: Radu Jude

Romania, 2018, 10’

La fucilazione del generale Ion Antonescu, primo ministro e «conducător» fascista della Romania durante la Seconda guerra mondiale, raccontata mettendo a confronto due materiali di repertorio: le riprese dell’esecuzione – avvenuta l’1 giugno 1946 dopo la condanna del Tribunale del popolo di Bucarest – realizzate dall’operatore Ovidiu Gologanl e la sua ricostruzione in un film di finzione del 1994, Oglinda di Sergiu Nicolaescu, che come molte altre opere del periodo post-rivoluzionario cercava di ripulire l’immagine di una figura storica vittima del regime comunista. Il montaggio alternato segue i vari momenti dell’esecuzione del generale e di alcuni suoi fedelissimi sottolineandone differenze e punti di contatto: il bianco e nero e il colore; il silenzio e l’accompagnamento musicale; alcuni particolari tralasciati o al contrario sottolineati con insistenza. Folgorante cortometraggio in cui Jude s’interroga sul valore della Storia per immagini, confondendo volutamente documento e messinscena e togliendo la pretesa di autenticità a ogni forma di messinscena.


The Exit Of The Trains
Ieşirea Trenurilor Din Gară

Regia: Radu Jude, Adrian Cioflâncă

Romania, 2020, 175’

Tra il 28 e il 29 giugno 1941, nella città di Iași, nordest della Romania, si scatenò uno dei più violenti pogrom della storia ebraica: autorità governative manovrate dalla Germania nazista, ma soprattutto poliziotti, militari e semplici cittadini rumeni fomentati dalla propaganda antisemita e antisovietica assalirono, occuparono e diedero alle fiamme case e uffici nella parte ebraica della città; fucilarono uomini, donne, vecchi e bambini; caricarono su treni diretti a sud migliaia di prigionieri, la maggior parte dei quali destinata a morire d’asfissia durante l’interminabile viaggio. Alla fine si contarono più di 13000 morti. In collaborazione con Adrian Cioflâncă, Jude ricostruisce quei drammatici eventi nel modo più oggettivo e insieme toccante possibile, elencando in ordine alfabetico nomi, fotografie e documenti delle vittime, mentre fuoricampo alcuni interpreti leggono le loro storie e quelle dei loro familiari sopravvissuti. Le immagini che documentano l’orrore arrivano solamente nella parte finale, lasciando impressa nello spettatore l’impronta di un male oggi dimenticato ma registrato per sempre su carta fotografica.


Uppercase Print
Tipografic Majuscul

Regia: Radu Jude

Romania, 2020, 128’

Botoşani, 1981. Per le strade della città rumena cominciano a comparire scritte in carattere maiuscolo: frasi che chiedono libertà, invocano riforme, domandano migliori condizioni di vita. L’autore è uno studente minorenne, Mugur Călinescu, che sarà individuato, intercettato, indagato e rovinato dalla polizia segreta. A partire dalla pièce che Gianina Cărbunariu ha tratto dalla vicenda, con l’aiuto della stessa scrittrice in fase di sceneggiatura, Jude realizza una riflessione cartesiana sul rapporto fra immagine e potere nella Romania comunista. Alternate infatti alle scene teatrali che ricostruiscono il caso, il film mostra straordinari materiali della tv d’epoca, rivelando nel modo più oggettivo possibile il lavorio quotidiano del potere: trasmissioni di cucina, varietà, servizi di costume, momenti di celebrata normalità. Tra le lettere scarabocchiate di Călinescu e l’autocelebrazione di un mondo, tra la rivolta di un singolo e la voce del padre, un’intera ideologia viene messa a nudo, rivelando inconsapevolmente sia la propria forza, sia la propria fatale ottusità.

Bring Down The Walls

Regia: Phil Collins

Usa, Germania, 2020, 88’

Il sistema carcerario, le sue iniquità e i suoi interessi economici, osservati dal punto di vista di ex detenuti e a ritmo di house music. Come spesso avviene, un’etichetta giustapposta a un genere finisce per assumere un significato improprio, talora persino contrastante con quello originario. Alla musica house è associato inevitabilmente il concetto di divertimento, sballo, liberazione dalle energie negative. Ma la radice black del movimento afferisce a tutt’altro. A una liberazione sì, ma a un gesto che è anche eminentemente politico: quello di riappropriarsi della propria energia e del proprio potenziale inespresso, di divergere dalle convenzioni più che di divertirsi. La voce di Robert Owens, che della nascita del movimento fu protagonista, è l’unica over tra le tante under che si raccontano di fronte alla macchina da presa. Storie di detenzione e di vite spezzate, di decenni che non si possono più recuperare. L’evento newyorchese allestito da Collins e rivolto agli ex detenuti diviene così, in un suggestivo incontro di stili apparentemente antitetici, documento filmato e occasione di uno sfogo multisensoriale, attraverso la parola e il ballo, là dove la legge non può arrivare.

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Patti In Florence

Regia: Edoardo Zucchetti

Italia, 2020, 97’

Chi gli anni ‘70 in Italia non li ha vissuti forse immagina una terra attraversata dal rock’n’roll, con concerti di Led Zeppelin, Rolling Stones e simili. Ma non andò così: dopo i tafferugli innescati dalle rivendicazioni politiche del 1971, che interruppero diverse esibizioni, il Paese divenne un luogo troppo pericoloso per le band anglosassoni. Fino al 1979, quando a Firenze arrivò il Patti Smith Group. Ad attenderla 80 mila persone, da troppo tempo a digiuno di buone vibrazioni. Per la poetessa e profetessa, madrina del punk, era l’ultimo concerto con quella formazione indimenticabile, a cui sarebbero seguiti 16 anni di lungo silenzio. Una serata che si fa inconsapevole spartiacque, tanto per l’Italia quanto per Patti Smith, quasi guidata dal destino nella sua irripetibilità. Ma Firenze questo lo ignorava, mentre impazziva per quei suoni di rottura e di liberazione: «Era la nostra Woodstock», dice chi c’era. Edoardo Zucchetti approfitta del ritorno in città di Patti trent’anni dopo, per alternare le testimonianze di quella serata mitica all’inseguimento della cantante tra le vie della capitale medicea. Un cortocircuito temporale che parla soprattutto dell’amore di lunga data tra l’artista e il capoluogo toscano.

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Sisters With Transistors

Regia: Lisa Rovner

Gran Bretagna, 2020, 82’

Anche se non è quello che ci hanno raccontato, sin dalle origini la musica elettronica è anche una faccenda di donne. “Sorelle” di transistor, minoranza della minoranza, costrette in un angolo buio dall’industria musicale ma comunque pervicacemente intente a diffondere il proprio credo sonoro. Attraverso un excursus geo storicopolitico di rara originalità sul ventesimo secolo, Lisa Rovner trasforma l’eterogeneo materiale di repertorio audiovisivo in una nuova narrazione sulle pioniere della musica elettronica, con la voce di Laurie Anderson come raccordo. E in una nuova verità sul loro ruolo nella rivoluzione sonora in corso, troppo a lungo sottaciuta da una visione e una storicizzazione che, anche nell’ambito della musica di avanguardia – apparentemente al di fuori da ogni schema e convenzione – sono rimaste prettamente maschili. Clara Rockmore, Daphne Oram, Suzanne Ciani, Bebe Barron, Maryanne Amarache, Laurie Spiegel, Pauline Oliveros e tutte le altre divengono così eroine di un flusso unitario di coscienza sulle magnifiche sorti e progressive dei transistor, che agisce sottopelle al pari dei loro esperimenti in musica, ipnotici e inafferrabili.

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3.30PM

Regia: Ludwig Wüst

Austria, 2020, 74’

Dopo 15 anni, due amici di una vita si ritrovano per la prima volta e, confrontando ricordi e riflessioni, si ritrovano catapultati, in modo inaspettato e surreale, nel passato dell’infanzia traumatica di uno dei due. Seguendo, in un apparente tempo reale, l’incontro dei protagonisti che da una quotidianità innocua scivolano gradatamente verso i luoghi oscuri del rimosso, 3.30pm esplora con notevole maestria ed eleganza la dimensione della camera come testimone silenzioso e confessionale. Con questo meccanismo il film rivela, con un’architettura ingannevole, come il tema della sorveglianza si intrecci con il suo apparente opposto: il disvelamento dell’intimità e dell’identità molteplice, attraverso un gioco di specchi tra i personaggi e un dialogo con lo spettatore che si dispiega sul crinale tra ironia e desiderio.


Back To 2069

Regia: Elise Florenty, Marcel Türkowsky

Belgio, Francia, Germania, 2019, 40’

L’isola di Lemnos, rinominata Altis, è al centro di una battaglia condotta da giocatori connessi in rete in tutto il mondo. Questo avviene nel videogioco Arma II, nel quale il mito omerico di Philoctetes, l’argonauta che Ulisse abbandonò sull’isola, rivive attraverso riferimenti e reminiscenze. Intanto, un uomo solitario, esiliatosi volontariamente da Atene per sfuggire alla crisi, sperimenta diversi stati di incarnazione e disincarnazione nel suo passaggio da persona fisica ad avatar, dalla realtà dell’isola a quella dello schermo. Attraverso la sovrapposizione tra le immagini del gioco e quelle dell’uomo che vive sull’isola, affrontiamo un viaggio in un luogo immaginario ibrido, dove gli scenari di conflitto passati e futuri sembrano assumere gradualmente concretezza, trasformando il ruolo dello spettatore in quello di un giocatore, una pedina dallo statuto ambiguo e costantemente riconfigurato, sospesa tra i fantasmi e le utopie di una geografia decostruita. Un film sul ruolo del documentario nell’immaginare spazi di soggettività attraverso la ricerca di un linguaggio che sperimenta un rapporto permeabile tra virtuale e reale, una riflessione sul tempo multilineare che mette in crisi quello del capitalismo e imposta un discorso sulla contingenza in grado di invertire e far implodere qualsiasi senso teleologico della storia.

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Judy Vs Capitalism

Regia: Mike Hoolboom

Canada, 2020, 63’

Un flusso di immagini radicali costruisce il ritratto potente della femminista, attivista e giornalista Judy Rebick, una delle delle voci ribelli più autorevoli del Canada progressista dagli anni Settanta. Fervida sostenitrice della capacità di decisione delle donne riguardo la scelta dell’aborto, al fianco del dottor Henry Morgentaler, Judy Rebick ha condotto lotte epocali, guidato la più grande organizzazione femminista canadese negli anni ‘90 e combattuto al fianco degli ultimi contro il capitalismo neoliberista. Il film, evocativo, poetico e impressionistico racconta la battaglia personale, onesta, intima – e dunque intrinsecamente politica – di una donna dalla forza grandiosa e al contempo tormentata dai fantasmi di un passato mai risolto e da gravi attacchi di una depressione difficile da superare. Diviso in sei parti, il film scandisce episodi della vita pubblica di Judy e mostra, servendosi di filmati in Super-8, come l’articolazione di un discorso politico sulla vulnerabilità che avversi ogni vittimizzazione delle donne e sostenga una presa di parola radicale, passi necessaria[1]mente da una ricerca e una consapevolezza dell’identità personale senza compromessi.

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Les Antilopes

Regia: Maxime Martinot

Francia, 2020, 8’

L’idea di questo film nasce da un testo in cui Marguerite Duras (Cahiers du Cinéma, giugno 1980) descrive un evento misterioso: cosa ha guidato, un giorno, centinaia di antilopi al suicidio di massa? Una rivolta che risuona con un sentimento di rabbia connesso al nostro tempo e che, mutando da una specie all’altra, arriva fino a noi. Les Antilopes è un atto filmico che mette in discussione la nozione di identificazione. Le immagini, per lo più catturate dai droni, ci spingono a farci domande sullo statuto del visibile e, quindi, sulla maniera in cui guardiamo. Nell’era dei droni, l’occhio meccanico diventa indipendente e si allontana dall'umano. Il film, con la preoccupazione ecologica che lo attraversa, si chiede come la prospettiva delle immagini meccanizzate, che si pone al di sopra, e non all’interno degli esseri viventi, privi gli individui delle loro caratteristiche. Perché l’ecologia non ha solo a che vedere con la maniera in cui trattiamo l’ambiente e gli animali, ma anche con il modo in cui ci relazioniamo con la tecnologia e con il modo in cui guardiamo la natura.

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Look Then Below

Regia: Ben Rivers

Gran Bretagna, 2020, 22’

“I film non raccontano mondi, sono mondi essi stessi”. Nelle parole di Ben Rivers la descrizione di un’opera con radici profonde nelle origini materiche dell’arte cinematografica e allo stesso tempo totalmente immersa nelle trasformazioni delle sue dissoluzioni formali. Il cineasta inglese sa che, anche nella sua natura più documentaria, il film non è mai puro resoconto testimoniale ma sempre e comunque ricreazione di un universo filtrato dalla soggettività dell’artista che, in questo caso, riversa nel proprio lavoro le più svariate influenze e passioni: gli studi nelle arti plastiche, l’amore per i b-movies e i generi del fantastico, la propensione al perturbante e alla sperimentazione. Come nei primi due capitoli della trilogia ispirata ai testi di Mark von Schlegell, Slow Action (2011) e Urth (2016), anche qui le immagini primigenie filmate nel Somerset sono come “possedute”, le geo[1]grafie naturali trasfigurate, lo spettatore condotto su un’isola avvolta dalla nebbia e circondata da un oceano oleoso, fino a una grotta da cui emana un bagliore sotterraneo. È dallo scavo nella natura più profondamente libera e immaginifica del visuale che oggi emana il cinema più vitale.


Medium

Regia: Edgardo Cozarinsky

Argentina, 2020, 73’

Lucas, un famoso personaggio letterario nato dalla penna di Julio Cortázar, ne parla ammirato in un racconto: Margarita Fernández, pianista e compositrice argentina è una leggenda. Una delle artiste più sensibili e intelligenti della seconda metà del Novecento diventa, nel film di un maestro come Cozarinsky, non l’oggetto di un ritratto ma, come il titolo suggerisce, un medium per altro, un personaggio intercessore che ci apre percorsi nuovi, sentieri della percezione, della memoria, della sensibilità. Fin dalla sequenza iniziale, in cui la musica di Fernández ci avvolge in tutta la sua intensità, Cozarinsky filma l’artista e le sue parole, e al tempo stesso la accompagna, ne segue i pensieri, gli sguardi, i racconti di un passato in cui l’amore per la musica diventa il filo rosso per raccontare una vita e al contempo lo scorcio di un secolo. Margarita suona, racconta, riflette; sulla musica, sulla vita, su come ha guardato e vissuto il mondo, su come tutto questo può diventare musica, la forma attraverso la quale pensare la musica, la sua forza, la sua radicalità. Un film che è al tempo stesso una sinfonia visiva e sonora, il racconto poetico e intimo di uno sguardo.

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Night Shot
Visión Nocturna

Regia: Carolina Moscoso Briceño

Cile, 2019, 80’

Le parole in prima persona della regista prendono vita sullo schermo con titoli bianchi sul nero, ripercorrendo le tappe di un viaggio verso una località di mare. Il ricordo di una notte di festa sulla spiaggia con gli amici assume ben presto il tono cupo e drammatico di una violenza, che genera una ferita difficile da sanare. Otto anni dopo essere stata vittima di uno stupro, Carolina Moscoso realizza un film caleidoscopico, in cui la dimensione poetica, quella politica e quella personale sono così legate da essere inscindibili. Alternando il racconto della violenza subita (e delle conseguenze traumatiche legate alle storture di un sistema giudiziario patriarcale che porta alla colpevolizzazione della vittima prima ancora che all’identificazione di un responsabile) con frammenti di immagini di viaggio girate insieme ai suoi amici (diari filmati in prima persona, talvolta sovraesposti e fuori fuoco, che giocano con una vita che mai si può dare per perduta) Visión nocturna è un grande gesto di resistenza artistica e poetica che mostra (e cerca di sanare) le ferite dell’abuso, spingendosi in quel territorio etico e estetico in cui la giustizia non può arrivare.

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Quebrantos

Regia, Fotografia: Maria Elorza Deias, Koldo Almandoz

Spagna, 2020, 8’

A partire da un’intervista su Euskadi Irratia da Maite Artola a Ziortza LInares, il cortometraggio rielabora la testimonianza di Ziortza, una donna che ha subito minacce da parte dell’ex marito e che rivela dettagli del rapporto, sempre precario e fragile, con le misure di protezione e i dispositivi tecnologici dai quali qualsiasi vittima di violenza di genere dipende per ritrovare un senso di sicurezza personale. Il risultato è un film estremamente originale che assembla materiali d’archivio di varia provenienza – da video su Youtube a materiali d’archivio – evocando, per continuità e per contrasto, il rapporto kafkiano che ciascuno di noi intrattiene con i dispositivi di controllo, dando voce in modo performativo a una testimonianza che, nella sua incorporeità, comunica un’inquietudine universale. Attraverso un collage di materiali apparentemente non correlati, ci addentriamo nelle “crepe” (quebrantos) del nostro rapporto con la tecnologia. Il rovescio delle crepe nell’identità di chi è minacciato: interstizi irrisolti che ci obbligano a interrogarci sulle implicazioni del legame ambiguo con le nostre protesi virtuali e sul futuro del nostro “sè digitale”


The Cypress Dance
A Dança Do Cipreste

Regia: Mariana Caló, Francisco Queimadela

Portogallo, 2020, 37’

Sono immagini di puro sogno: fiori gialli battuti dal vento, i movimenti laterali di una stella marina, il battito d’ali di una farfalla. La natura regna sovrana in un film in cui la presenza umana serve a far convergere la grandezza del mito, le cui sembianze possono essere assunte dal corpo gracile di un bambino come dai tentacoli sinuosi di un anemone di mare. Tra la rievocazione di Orfeo (sulle note cavalleresche del canto d’apertura e chiusura) e la Calypso di Paul Valery, si sviluppa una ballata visionaria, tra le onde del mare infrante sugli scogli e i firmamenti di fiori che rivestono le vallate, in cui si muovono come presenze fantasmatiche e solitarie Mariana, Henrique, Artur e Rafael. A guidarli è il desiderio, a tratti ombroso, altre volte leggiadro, che tiene uniti gli elementi di questo gruppo familiare in un circolo suadente, in una ronda eterna che riempie gli occhi di bellezza e conduce a una visione primigenia del mondo, sprigionando un sentimento d’amore panico.

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This Means More

Regia: Nicolas Gourault

Francia, 2020, 23’

La strage di Hillsborough, avvenuta a Sheffield nel 1989, causò la morte di 96 tifosi del Liverpool per la pressione della calca. Le misure adottate a seguito della tragedia per garantire maggiore sicurezza negli impianti calcistici cambiarono notevolmente la fruizione del football negli stadi di Oltremanica, a discapito dei tifosi della working class. In This Means More le voci di alcuni supporters veterani ripercorrono la storia del tifo nella casa dei Reds, Anfield Road, attraverso l’utilizzo di fonti visive diverse, come l’archivio, le planimetrie degli impianti e soprattutto la tecnica CGI utilizzata per la realtà virtuale e i videogames. È in particolare la celeberrima Kop, la tribuna sud che ha sempre ospitato il tifo popolare, ad acquisire protagonismo nel racconto, tra ricostruzioni al computer e vecchie immagini in bianco e nero della folla che si muove come un’onda intonando le canzoni dei Beatles. Nicolas Gouralt tratteggia un saggio estremamente composito per la forma e i materiali impiegati: una scommessa estetica sorprendente, senza tuttavia tradire lo spirito di un racconto capace di restituire nella sua purezza tutta la fascinazione per il football popolare.

 

Express Scopelitis

Regia: Emilia Milou

Grecia, Gran Bretagna, 2020, 69’

Nelle Cicladi i venti soffiano implacabili, d’inverno il cielo è grigio e la terra arida, e questo fa si che tutti gli approvvigionamenti debbano provenire dalle isole più grandi, come Amorgos e Naxos. Un’imbarcazione, l’Express Scopelitis, fa la spola all’interno dell’arcipelago da oltre un trentennio, garantendo ad abitanti e turisti una mobilità e uno scambio che altrimenti sarebbe impossibile. Era il 1958 quando il capitano violinista Mitsos Scopelitis diede vita in maniera quasi eroica al servizio con un piccolo caicco a un solo motore. Oggi la nave è capitanata da suo figlio Giannis che si danna l’anima per farla arrivare in tempo e farla partire a dispetto di ogni situazione meteorologica. Il carattere dell’impresa rimane quella di sempre: più che un lavoro, duro e poco remunerativo, un patto siglato per la vita con un territorio e il suo popolo. Il documentario di Aimilia Milou, in questo senso, è più della semplice storia di una nave e di chi la conduce: è una storia di amicizia, di solidarietà e di fiducia, quella di una comunità resistente e unita che trova il modo di restare a galla ad ogni costo anche nella burrasca di una vita difficile.

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Icemeltland Park

Regia: Liliana Colombo

Italia, Regno Unito, 2020, 40’

Una voce pre-registrata risuona dagli altoparlanti, invitando gli spettatori a godersi la visita in un immaginario parco di divertimenti corredato di insegne, cartelli di divieto, orari di entrata e uscita. Le immagini di archivio riprese dal web diventano protagoniste di un itinerario dell’assurdo: un gruppo di turisti nella Terra del Fuoco assiste dal vivo allo scioglimento dei ghiacciai, esultando ogni volta che un pezzo si stacca dalla parete; l’effetto interlacciato sovraimprime le registrazioni di un maremoto, mentre mappe satellitari rivelano i cambiamenti irreversibili sul paesaggio provocati dall’innalzamento delle temperature globali. Partendo dal riuso di archivi video pubblicati sul web e provenienti da tutto il mondo, Icemeltland Park dà vita a un parco di divertimenti da incubo, che altri non è che il nostro pianeta, sconvolto dalle conseguenze del cambiamento climatico. In questo viaggio inquietante e allo stesso tempo dissacrante, Liliana Colombo offre uno sguardo consapevole su una materia oggi più che mai urgente, osservandola da una prospettiva analitica globale che include interventi di stampo scientifico.

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Journey to Utopia
Rejsen til Utopia

Regia: Erlend Eirik Mo

Danimarca, Norvegia, Svezia, 2020

Il regista Erlend, sua moglie Ingeborg e i figli vivono in un’atmosfera idilliaca nella campagna norvegese. La coppia è però afflitta da grandi preoccupazioni riguardo i cambiamenti climatici e il mondo che potrebbero lasciare in mano alle generazioni future. Di fronte a questa urgenza, prendono una decisione radicale: si trasferiscono in Danimarca per abitare in un eco-villaggio autosufficiente. L’adattamento alla nuova vita sarà però ricco di insidie e complicazioni inaspettate. Journey to Utopia è un family drama raccontato in prima persona in cui il regista, tra il riflessivo e l’auto-ironico, mette in scena i conflitti con la moglie, la figlia maggiore Aslaug e gli abitanti dell’eco-villaggio, sullo sfondo dell’emergenza legata ai cambiamenti climatici e alla più che mai stringente necessità di prendere posizione. Il timore di Erlend di essere ormai incapace di incidere sul presente si intreccia con le questioni legate alla sfera familiare (laddove il conflitto generazionale con la figlia diviene anche conflitto di responsabilità), ponendo lo spettatore di fronte a un interrogativo cruciale: che cosa si è disposti a sacrificare pur di rimanere coerenti con i propri ideali?

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Middle Earth
La Terre Du Milieu

Regia: Juliette Guignard

Francia, 2020, 57’

Camille vive in una vecchia casa di campagna nella Creuse, nel cuore della Francia. Ha deciso di lavorare la terra e crescere i suoi tre figli lontano dalla città, alla ricerca di una forma di vita differente e sostenibile. Quando non si occupa della coltivazione o degli animali, trascorre il tempo con i piccoli Maïwen, Arthur e Joaquim: questi aiutano la madre a preparare le marmellate, la accompagnano al mercato del paese, cantano insieme Bella Ciao e leggono di notte a lume di candela alcuni passi dei libri di Tolkien. I figli sono lo specchio delle sue scelte, prese per fare fronte ai timori del futuro: mentre Camille desidera portare avanti metodi di coltivazione al di fuori degli standard agricoli che costringono i piccoli produttori locali a vivere di sussidi statali, nelle parole della figlia maggiore Maïwen comincia a crescere il seme della ribellione, mettendo in discussione i valori consumistici. La Terre du milieu è il ritratto sensibile di una donna, diventata contadina per scelta, e della sua famiglia: un’osservazione delicata e consapevole della vita campestre, che rifugge ogni idealizzazione, poiché frutto di una decisione etica e politica sempre più urgente.

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Storkman

Regia: Tomislav Jelinčić

Croazia, Slovenia, 2020, 56’

Storkman racconta la vicenda di un bidello di una scuola elementare, Stjepan, la cui vita sarebbe passata del tutto inosservata non fosse stato per una cicogna molto speciale. La storia si svolge nella periferia della città croata Slavonski Brod dove, nel 1992, il vedovo Stjepan Vokic trova una cicogna con un’ala rotta. La salva e da allora la cicogna, ormai chiamata Malena, vive con lui nella sua casa. Nel 2002 Malena trova il suo amore per la vita e da allora aspetta il passaggio del suo compagno tutte le primavere. Klepetan, come lo ha chiamato Stjepan, viene fin dal Sudafrica. Malena e Klepetan hanno allevato oltre 60 piccole cicogne. Quando giunge l’autunno Klepetan e i piccoli di cicogna volano giù in Africa, mentre Malena resta sola con Stjepan. Senza di lui lei non riuscirebbe a sopravvivere all’inverno, ma come farebbe Stjepan senza di lei?

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The Grocer’s Son, The Mayor, The Village And The World…
Le Fils De L’épicière, Le Maire, Le Village Et Le Monde

Regia: Claire Simon

Francia, 2020, 111’

Che cosa unisce l’ideazione di un villaggio di cinema documentario e il ritmo della vita agricola della campagna francese? Si potrebbe rispondere che l’ecosistema Lussas (fatto di un festival, di una scuola di cinema, di diverse case di produzione e di una piattaforma VOD di documentari, chiamata Tënk) sia il frutto della biografia del suo ideatore, l’appassionato e instancabile Jean-Marie Barbe, figlio di negozianti del paese. Ma c’è molto di più nella vita ordinaria di un uomo speciale: l’intuizione che la cultura oggi debba avvicinarsi ai ritmi della natura, per ritrovare una connessione profonda con le persone. Seguendo da vicino il lavoro della squadra attorno a Barbe, la grande documentarista Claire Simon traccia l’odissea di un’impresa culturale contro corrente, ma in piena sintonia con il territorio che l’ha generata, tra una vendemmia e una raccolta di frutti. Un sogno che si fa – poco a poco e con grande fatica – realtà, in un villaggiomondo in cui si mette a fuoco un nuovo modello di società.


The Perimeter of Kamsé
Le Périmètre de Kamsé

Regia: Olivier Zuchuat

Svizzera, Francia, Burkina Faso, 2020

Kamsé è un piccolo villaggio in Burkina Faso, dove un gruppo di abitanti, in maggioranza donne, ha deciso di rimanere e combattere contro la siccità e la mancanza di acqua che, nel corso del tempo, hanno causato un forte spopolamento del territorio. Gli uomini e le donne rimasti si uniscono allora per portare avanti un progetto innovativo ed ecologico di irrigazione, per far rinascere il villaggio e far tornare coloro che sono emigrati. Il film racconta l’impresa, il lavoro duro e gli ostacoli che donne e uomini dovranno affrontare, ma anche il for marsi di una collettività intorno a un progetto. Il racconto si sviluppa man mano che il film va avanti e diventa la narrazione epica di un’impresa che lo sguardo di Olivier Zuchuat filma come un soggetto unico, come se tutti gli abitanti fossero un solo personaggio. È questa consapevolezza della collettività a costruire nel film un percorso avvincente e assolutamente contemporaneo, in cui la macchina da presa è al tempo stesso dentro la materia che filma e capace di mantenersi alla distanza necessaria per mostrare il corpo come corpo comune, il progetto come progetto di vita collettiva.

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The Whale From Lorino
Wieloryb Z Lorino

Regia: Maciej Cuske

Polonia, 2019, 59’

Secondo la mitologia del popolo Chukci, l’umanità nacque dall’unione di una donna, Nau, e una balena. Esseri umani e cetacei convissero in natura per tanti anni, come tra fratelli e sorelle, finché un giorno un uomo non uccise una balena. Da allora, la fame e la sofferenza si impossessarono della vita sulla Terra. Le parole della voce narrante vengono risucchiate dal fragore delle onde di un mare insanguinato: a Lorino, remoto villaggio di pescatori nell’estremo nord-est della Siberia, si pratica ancora la caccia alle balene, che non è solo retaggio di una tradizione tribale, ma un'indispensabile garanzia di sopravvivenza per la piccola comunità. Mentre la carcassa del mammifero viene trascinata a riva, i ragazzi assistono alle lezioni in una scuola che appare perduta nel tempo, con i ritratti dei dirigenti sovietici ancora appesi in aula. The Whale from Lorino è un’opera di grande potenza visiva che ritrae una comunità alla fine del mondo. La maestosità delle immagini e la forza espressiva del sonoro immergono lo spettatore in uno scenario sospeso, dove domina la tensione tra la rappresentazione sublime della ferocia e la dignità di un popolo che lotta per la propria sopravvivenza.

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Traces of a Landscape

Regia: Petr Záruba

Repubblica Ceca, Italia, 2020

Jan Jedlička, nato a Praga nel 1944, dopo gli studi all’accademia d’arte emigra in Svizzera in seguito ai fatti del 1968 in Cecoslovacchia. Nel corso di un viaggio in Toscana si innamora della Maremma, che diviene ben presto la sua patria artistica. Da allora i suoi paesaggi sono fonte di ispirazione per le sue opere. In particolare, l’uso della terra, nel suo aspetto più materiale, è una caratteristica fondamentale della sua ricerca pittorica: Jedlička trascorre infatti buona parte del suo tempo alla ricerca di piccoli frammenti di rocce per produrre i colori che danno vita ai suoi dipinti. Traces of a Landscape mostra in maniera intima il processo creativo del pittore ceco, instaurando un dialogo appassionato che lega due sguardi e due linguaggi (quello artistico e cinematografico) che si confrontano e ascoltano nell’intento di catturare il lavoro invisibile, complesso e misterioso della creazione. In un mondo sempre più caratterizzato dai linguaggi digitali, Petr Záruba sembra rivolgere la sua attenzione ai tratti fondamentali dell’espressione artistica, attraverso un recupero di una dimensione materiale che svela un altro rapporto possibile tra l’uomo e la natura.

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Jour Ápres Jour

Regia: J. D. Pollet, Jean-Paul Fargier

Francia, 2006, 65’

Nell’aprile del 1989, Jean-Daniel Pollet, uno degli sguardi più lucidi e sperimentali del cinema francese del secondo dopoguerra, viene travolto da un treno mentre sta filmando. Da allora, la sua vita è cambiata e il suo corpo non può tornare più quello di prima. Il tempo che fugge si condensa allora nel tempo del film, realizzato nell’ultimo anno di vita del regista, ormai troppo debole per filmare. Pollet fotografa la sua casa, giorno dopo giorno, e le immagini scorrono accompagnate dal testo di Jean-Paul Fargier. La scelta, radicale, è in fondo obbligata. Pollet non può muoversi, non può che congelare i suoi sguardi dall’interno e all’interno della sua casa che, da qualche tempo, con l’aggravarsi della malattia, è diventata tutto il suo mondo. Filmare l’interiéur significa qui caricare di una potenza proiettata verso l’esterno gli spazi e gli elementi altrimenti sottratti alla sfera pubblica. Così facendo ogni dettaglio, dalle stoviglie, ai libri, agli oggetti della sua scrivania, fino alla finestra che dà sul giardino esterno, diventano le tracce di un vissuto, di un’esistenza: diventano corpi vivi. Filmare la propria casa come ultima traccia visibile del proprio mondo, tutto ciò che resta, nel tempo che resta.


Le Souvenir D’un Avenir

Regia: Yannick Bellon, Chris Marker

Francia, 2001, 42’

Un titolo che è un corto circuito verbale, o forse no. Uno sguardo che è al tempo stesso ancorato al Novecento e capace di anticipare il futuro, come quello della fotografa francese Denise Bellon, le cui fotografie diventano qui frammenti mobili di un montaggio tra tempi diversi. Un viaggio filmico operato da Yannick Bellon (figlia della fotografa) e Chris Marker: un viaggio composto da parole e immagini che da una parte diventa un viaggio nel tempo, lungo le pieghe del secolo breve visto dallo sguardo lucidissimo e anticipatore di Bellon; dall’altra si rivela uno straordinario saggio sul potere delle immagini, sulla loro particolare densità temporale, sulla loro apertura infinita a nuovi montaggi, a nuovi commenti, a nuove possibilità di racconto. È infatti il montaggio raffinato del film, legato al commento markeriano, al tempo stesso, ironico, acuto, poetico e teorico, a costruire il tempo dislocato di un film straordinario e teorico che ancora una volta lavora il paradosso temporale delle immagini, della fotografia e del cinema.


Les Photos D’alix

Regia: Jean Eustache

Francia, 1980, 15’

Una struttura apparentemente semplice: un uomo (Boris Eustache, figlio di Jean) e una donna (Alix Cléo Roubaud, fotografa) sfogliano un album di foto della stessa Alix, che le descrive, ne racconta la storia, il percorso che ha portato a quello scatto. Una struttura semplice che rivela pian piano la sua illusorietà. Le foto scorrono di fronte ai nostri occhi, ma le parole sembrano gradualmente non aderire più a ciò che vediamo: quelle immagini sembrano essere altro, ma Alix vede attraverso di esse un altro mondo. Les photos d’Alix, ultimo film del regista de La maman et la putain, è un film che condensa il cinema unico ed estremo di Jean Eustache: lo sguardo va sempre al di là di ciò che la macchina da presa cattura, il reale è sempre, cinematograficamente, altro, perché racchiude il desiderio e l’immaginazione di chi lo sta vivendo, subendo e attraversando. Un gioco che rivela un mondo aperto dalla relazione tra il visibile e la parola, tra l’immagine e il suo racconto.


No Foe Can Scare Us
Mums Nebaisus Jokie Priesai

Regia: Edmundas Zubavičius

Lituania, 1978, 11’

Con i volti nascosti da inquietanti maschere antigas, gli abitanti del piccolo villaggio di Samogitia partecipano alle esercitazioni indette dalla protezione civile e si preparano ad affrontare l’evenienza di un attacco nucleare. Il nemico oltre confine è invisibile, e la popolazione mette in scena la propria autodifesa in uno scenario bucolico trasformato per l’occasione in apocalittico teatro dell’assurdo. Le prove si svolgono con militaresca dedizione sotto lo sguardo assorto dei bovini nei campi, e la drammatica recita tradisce l’incredulità dei suoi attori, propensi a volgere in ilarità la propria esibizione di fronte agli sghignazzi di donne e bambini. Il corto di Zubavičius, tra i grandi maestri della scuola lituana, irride la follia della guerra con una straordinaria incursione nel realismo paradossale, ancora più incisiva in virtù della sua brevità. Lo stile poetico che caratterizza tanta cinematografia baltica è reso al meglio da una macchina da presa che si muove tra i paesani protagonisti liberandone l’estro, in uno sprazzo geniale di etnografia visionaria. È tutta una messa in scena, ma le immagini più stranianti sono cariche di un terrore post-atomico.


Out Of The Present

Regia: Andrei Ujică

Germania, Russia, Francia, Belgio, 1995, 96’

Maggio 1991: due astronauti sovietici partono dalla terra diretti a una stazione spaziale. Il 26 dicembre dello stesso anno l’URSS cesserà ufficialmente di esistere. Poco tempo dopo la partenza, uno dei due astronauti tornerà in patria, ma l’altro, l’ingegnere Sergej Krikalev, rimarrà a bordo della stazione spaziale per molti mesi. Ha così inizio una sorta di biforcazione del tempo nel doppio registro che caratterizza le immagini del film: mentre Krikalev vive sospeso in orbita, gli avvenimenti della Storia mondiale si susseguono drammaticamente e rapidamente uno dopo l’altro. Le immagini si caricano di una duplice temporalità: da una parte quelle dell’astronauta, il cui tempo è quello sospeso e silenzioso dello spazio e la cui memoria è quella, altrettanto sospesa, del tempo della sua partenza; dall’altra si snoda inarrestabile il tempo collettivo della cronaca febbrile di quei mesi, dal tentativo di colpo di stato alla destituzione di Gorbaciov, alla fine dell’URSS. Un tempo scisso che attraversa il film facendo scontrare le sue immagini, tragicamente e ironicamente, mostrando quindi come la Storia non abbia mai un andamento lineare, ma sia sempre un complesso lavoro di stratificazione.


The War Game

Regia: Peter Watkins

Gran Bretagna, 1965, 48’

A seguito di un incidente diplomatico si scatena un conflitto mondiale: l’Inghilterra subisce un attacco nucleare che spazza via intere città e provoca milioni di morti. Capolavoro distopico di Watkins che, servendosi della forma documentaria, tratteggia un possibile scenario catastrofico: la prima parte è fatta di stralci di servizi televisivi, interviste a gente comune e dichiarazioni di politici, mentre nelle strade si scatena il panico e cominciano gli scontri; la seconda è un incubo apocalittico di tale forza visiva da risultare ancora oggi scioccante. Girato nel Kent con un cast composto quasi interamente di attori non professionisti, il film fonde una narrazione di stampo giornalistico e immagini di incredibile realismo, servendosi di un incisivo montaggio serrato. Al limite del sostenibile le sequenze successive all’esplosione della bomba, con la gente scaraventata contro i muri e i corpi martoriati dalle radiazioni (tanto che il film venne ritenuto troppo violento per essere mandato in onda dalla stessa BBC che l’aveva prodotto); e evidente, nell’intento antimilitarista, la feroce opposizione all’armamento nucleare in discussione all’epoca nel governo britannico.


The Mesmerist

Regia: Bill Morrison

USA, 2003, 16’

Questo film estremamente originale, elaborato dal regista Bill Morrison a partire da una stampa in nitrato deteriorata di The Bells (1926) di James Youngs, ha come protagonista Lionel Barrymore. In un sogno, Barrymore viene smascherato come un assassino dal mesmerista interpretato da Boris Karloff. Lo seguiamo quindi nella distorsione psichedelica dalla tenda degli indovini, dove sperimenta la sua redenzione come parte di una visione allucinatoria di un’altra realtà. Il film finisce di nuovo nella realtà del sognatore. Un esperimento di remix di found footage che, costituendo una narrazione interamente nuova a partire da una pellicola originale e giocando con le tracce del tempo come segni di una trasfigurazione verso una dimensione onirica che propone una nuova epistemologia a partire dall’indagine dell’inconscio, si riunisce con la tradizione surrealista attraverso la manipolazione tecnologica contemporanea, verso un cortocircuito nel quale il tempo si scioglie in un sogno dai contorni allucinatori.


Tigrero: A Film That Was Never Made

Regia: Mika Kaurismäki

Finlandia, 1994, 75’

Nel 1954 Samuel Fuller si reca in Brasile, sul Mato Grosso, per esplorare le location di un film da realizzare, avventuroso, esotico e sensuale, dal titolo Tigrero! Ha portato con sé una cassa di whisky, 75 sigari e una cinepresa 16mm. Il viaggio sarà un’esperienza umana particolare per Fuller che, una volta tornato in patria, non riuscirà a fare il film. Quarant’anni dopo, Mika Kaurismäki accompagnato da Jim Jarmusch, conduce Fuller in quegli stessi luoghi. Ha inizio un doppio viaggio: nella memoria, attraverso il confronto impossibile tra il materiale girato da Fuller nel ‘54 e il Brasile che appare davanti ai suoi occhi; e un altro verso l’idea di cinema di uno dei registi più straordinari del cinema americano. Sullo schermo, dunque, non prende forma il film mai realizzato, ma diventa tangibile e quasi palpabile il mondo immaginato da Fuller, il desiderio di cinema che ogni film perduto o mai realizzato porta con sé: il cinema come un ritorno impossibile.

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Ulysse

Regia: Agnès Varda

Francia, 1982, 21’

Ripensare le proprie immagini non significa tornare indietro nel tempo, ma iniziare un nuovo viaggio, un nuovo racconto. È questo il presupposto di un film affascinante come quello di Agnès Varda, che parte appunto da una foto scattata molti anni prima; una spiaggia, un uomo, una capra morta e un bambino. Quel bambino è ormai grande, è il figlio dei vicini di casa dell'autrice, esuli spagnoli in fuga dal franchismo. Ma quella foto è anche un punto di partenza per un altro racconto, quello del viaggio cinematografico della regista francese, la sua ricerca di immagini in grado di diventare intime, di entrare in un circuito in cui memoria e immaginazione si nutrono a vicenda: “Utilizzando il più semplice dei mezzi – la voce fuori campo in prima persona, tre interviste, fotografie, musica e filmati di cinegiornali selezionati con cura – Varda ha creato un saggio intimo e commovente sull’arte, la memoria e la narrazione” (Tim Sternberg). Un esempio straordinario di come l’immagine possa diventare uno strumento per molteplici viaggi nel tempo, cioè nel racconto; e di come lo sguardo di Agnès Varda continui a essere unico e universale al contempo.

Around The Night
Autour D’eux, La Nuit

Regia: Vassili Schémann

Belgio, Polonia, 2020, 20’

Il rumore dei macchinari squarcia l’oscurità del sottosuolo. Le luci delle torce svelano il profilo di alcuni uomini che discendono nelle profondità della terra rinchiusi nella gabbia dell’ascensore. Intorno a loro, nient’altro che la notte. Fuori dalle gallerie, lontani dal frastuono assordante degli impianti, i minatori si riuniscono settimanalmente per dare vita a un coro polifonico. Durante le prove, in cui preparano il loro repertorio di canti tradizionali, emerge tra i lavoratori un legame confidenziale che svela una quotidianità fatta di lavoro, fatica, ma anche dubbi e angosce rispetto al futuro: prima o poi, infatti, la miniera potrebbe chiudere definitivamente. Autour d’eux, la nuit getta uno sguardo sensibile su una comunità di lavoratori nel più grande giacimento di rame della Polonia, a Lubino, unita da un forte spirito di fratellanza che si manifesta attraverso la musica. Un ritratto collettivo che Vassili Schémann plasma catturando gesti, suoni e voci, tracciando la lotta silenziosa di una classe lavoratrice tormentata dai grandi cambiamenti del nostro tempo, ma che nonostante le incertezze del proprio futuro occupazionale si sforza ugualmente di resistere.


Hier.

Regia: Joy Maurits

Belgio, 2019, 18’

Con questo film Joy Maurits riesce nell’impresa di tra - sformare un materiale quotidiano, apparentemente banale, in un ritratto sensibile e penetrante di quel momento di scoperte e contraddizioni che è l’adolescenza. Con grande equilibrio tesse gesti, sguardi e conversazioni in una trama che restituisce l’intensità delle esperienze in questa fase di passaggio. La scelta delle immagini di sorveglianza con cui inizia il film è una dichiarazione di intenti: la decisione di mettere al centro della scena ciò che normalmente resta ai margini, ovvero le chiacchiere in spogliatoio, i momenti di pausa, le attese annoiate. I gesti sportivi e le prodezze restano ai bordi del campo, al centro stanno ragazzi e ragazze che con grande libertà, curiosità e desiderio parlano dei loro corpi che cambiano, delle relazioni, dell’attrazione. La camera riesce a catturare la tensione soggiacente alle situazioni quotidiane, il peso di ogni parola a prima vista banale, per esaltarne il senso. Con una studiata semplicità e una grande sensibilità antropologica, Hier. parte dall’osservazione di un luogo qualunque per raccontare in modo sorprendentemente intenso e acuto il processo di diventare grandi.


Intre Montes

Regia: Antonio Valerio Frascella

Svizzera, Italia, 2020, 22’

Reduce da oltre trent’anni di carcere, un ex ergastolano fa ritorno nella sua terra d’origine. La ritrova popolata di fantasmi, come quello di un uomo che lo accompagna in un difficile e doloroso percorso di riappropriazione del sé e dei sogni del passato, forse ormai definitivamente perduti. Un corto rigoroso che indaga il “male dell’ergastolano” nel corpo e nelle parole di Annino Mele: pastore fin da bambino, si trova coinvolto in una sanguinosa faida tra famiglie che produce odio e sangue per generazioni. Arrestato nel 1987 dopo una lunga latitanza viene condannato all’ergastolo, finché nel 2018 ottiene la libertà condizionale. Durante la detenzione scrive diversi libri, raccontando la brutalità dell’ergastolo come strumento di annientamento: chi lo subisce, se ha la fortuna di non morire recluso, esce dal carcere devastato sul piano fisico e mentale. A partire dagli scritti dell’autore, Frascella riconsegna l’uomo, sopravvissuto al calvario tra le occludenti pareti del carcere, ai panorami aperti della Sardegna, un territorio aspro e selvaggio che ne ha forgiato la forza di volontà e lo spirito di resistenza. Un ritorno tra i monti alla ricerca di una vita infine pacificata.

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Keep Shiftin’
Schichteln

Regia: Verena Wagner

Germania, 2020, 21'

Il suono delle cicale ci introduce nell’atmosfera fuori dal tempo del turno di notte in una grandiosa vetreria, al confine tra Germania e Repubblica Ceca, che prende vita sotto i nostri occhi. La regista ci conduce in un mondo maschile impregnato di cameratismo, con uno sguardo che si muove tra la forza dei corpi al lavoro e la fascinazione per una materia delicata come il vetro. Il film di Verena Wagner scorre abile tra questi due poli, in equilibrio tra l’aderenza al reale e la suggestione di una mascolinità possente e creatrice che sembra evocare tratti mitici. La camera insiste sui gesti precisi, i muscoli sotto sforzo, i tatuaggi, le mani abili e i volti concentrati dei vetrai nel momento di soffiare e plasmare la materia incandescente, in un processo antico che appare quasi magico. Il disegno sonoro raffinato esalta la potenza visiva di questa sinfonia notturna fatta di muscoli, fuoco e vetro, da cui gradualmente ci risvegliamo al canto degli uccelli che annunciano la fine del turno di notte e della nostra discesa al mondo di Efesto.


L’acqua che non piove

Regia: Emanuele Cantó

Italia, 2019, 16’

In un’atmosfera sospesa nel tempo, un gruppo di fratelli trascorre l’estate in Italia, parentesi di una vita che si svolge altrove, in Estonia. In questo mondo dove gli adulti non appaiono mai, viviamo da vicino, letteralmente sulla loro pelle, l’estate di tre fratelli, che scorre lenta, densa e leggera allo stesso tempo. Con una camera che privilegia i piani ravvicinati e i dettagli, lasciando quasi sempre il mondo fuori fuoco o fuori campo, il film ci proietta in una dimensione di intimità quasi tattile con i protagonisti e il loro ambiente. L’acqua che non piove registra momenti piccoli e quotidiani con uno stile trasognato che imprime nella retina ogni dettaglio, costruendo un tessuto filmico estremamente sensibile. Gli sprazzi in cui l’immagi - ne gioca con il registro dell’archivio suggeriscono una chiave: il tentativo di catturare la sensazione effimera dell’estate senza fine, della pubertà alla scoperta di sé stessi e del mondo, finisce per fissarla irrevocabilmente in ricordo passato, lontano. Emanuele Cantó gioca sottilmente con questo presente che si cristallizza in memoria sotto i nostri occhi per evocare il fantasma di un’intensità sensoriale che sopravvive nell’immagine.


Mat And Her Mates
Mat Et Les Gravitantes

Regia e fotografia: Pauline

Francia, 2020, 25’

In uno squat a Nantes, la giovane Mat organizza insieme alle sue amiche, compagne di un collettivo, un laboratorio di auto-ginecologia femminista, per osservarsi, conoscersi e riconoscersi meglio. Mat et les gravitants è un gesto documentario che svela uno sguardo intimo sulla presa di consapevolezza del corpo femminile e della propria sessualità. Pauline Penichout filma il laboratorio di Mat dall’interno, con una prospettiva partecipativa, ma allo stesso tempo si apre ad altre dimensioni, interrogandosi rispetto alla possibilità di esplorare forme di vita che rifletto - no sull’identità di genere, la sessualità e il proprio corpo. È così che il gesto filmico acquisisce una tensione ulteriore, tutta politica, evocando un fuoricampo fatto di aspettative sociali e battaglie in cui il corpo, la genitalità, ma anche la maniera di condurre le relazioni sentimentali diventano terreno di lotta.

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Play Me, I’m Yours

Regia: Julia Palmieri Mattison

Belgio, 2020, 14’

Le foto di famiglia scolorite dal tempo lasciano spazio a un collage fatto di colori, note scritte a mano e incollate con lo scotch, Polaroid di corpi nudi scattate in intimità e piccoli video girati con il cellulare, mentre i messaggi vocali e le registrazioni delle telefonate di alcune ragazze rimandano a discorsi scanzonati su amori che si intrecciano in un travolgente vortice di scoperta e desiderio. Play Me I’m Yours è un caleidoscopio di immagini e suoni che prende vita disordinatamente sullo schermo a ritmo di un piano jazz, offrendosi alla stregua di un album di famiglia apocrifo: un monologo interiore dove l’amicizia, l’amore, le relazioni familiari, il sesso, uniscono e dividono, in continuum di senso, rivendicazione di uno stare al mondo che si fa questione estetica e allo stesso tempo politica.


Pripyat Piano

Regia: Eliška Cílková

Repubblica Ceca, 2019, 18’

La camera si muove in un luogo disabitato e sospeso. La vegetazione di un bosco sembra lentamente riconquistare lo spazio urbano, privo di ogni presenza umana. All’interno delle case ormai spoglie gli unici abitanti rimangono i pianoforti, abbandonati al centro dei saloni vuoti con gli spartiti ancora sui leggii. Siamo a Pripyat, nella zona di esclusione di Černobyl: dopo l’esplosione del reattore numero 4, tutti gli abitanti della città, edificata appena 16 anni prima dell’incidente, vennero evacuati dalle loro abitazioni, senza potervi più fare ritorno. Pripyat Piano, primo cortometraggio della compositrice ceca Eliška Cílková, è una poesia visiva e musicale che riporta il dolore di una comunità segnata in maniera indelebile dal disastro nucleare. I pianoforti, gli unici oggetti che sopravvivono alle razzie e agli incendi, nelle case così come nei teatri abbandonati, diventano testimoni di un vissuto collettivo, evocato dai canti degli ex abitanti della città: sono le loro voci ad attraversare il silenzio dei boschi e degli edifici disabitati, offrendo un suggestivo tributo al potere evocativo della musica e alla forza rigeneratrice della natura.

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Radio Riders

Regia: Fabio Corbellini, Paola Piscitelli

Italia, 2020, 13’

Radio riders è un’indagine su una delle facce nascoste delle nostre città: il lavoro incessante dei fattorini che lavorano per le grandi piattaforme di consegne a domicilio in condizioni estremamente precarie. Attraverso le voci senza volto di Cesar, Fabio, Juliano e tanti altri riders, il film racconta le esperienze di questi lavoratori invisibili che sono ormai diventati il simbolo delle storture della gig economy. Corbellini e Piscitelli scrutano con grande sensibilità sociologica il paesaggio urbano di una Milano moderna, frenetica, smart, di cui mettono a nudo le contraddizioni costruendo uno scarto tra l’immagine e le parole dei protagonisti. Concetti apparentemente ottocenteschi come alienazione e sfruttamento si incarnano nelle parole dei personaggi, che vivono nei loro corpi usurati dal lavoro la faccia più dura di un sistema capitalista che vende comfort e servizi per pochi, occultando il prezzo in diritti e salute per molti. Corbellini e Piscitelli costruiscono così un ritratto anti-egemonico della metropoli neoliberista che non dorme, sempre affamata di consumo, in cui gli sfruttati possono nonostante tutto prendere coscienza, trovare voce e reclamare dignità.

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Salvo

Regia: Federico Cammarata

Italia, 2020, 29’

Salvo ha quarant’anni, vende meloni sulla statale, vive con i genitori e dedica il tempo libero ai suoi cardellini. Il film porta il suo nome e ne tratteggia, con gesti misurati ma estremamente densi, un ritratto carico di solitudine. La camera di Cammarata segue Salvo da vicino e lo scruta, attratta quasi magneticamente dal mistero di un personaggio impenetrabile e silenzioso. Infatti, il protagonista anche quando è con la famiglia o con la comunità appare sempre distante, ammantato di una solitudine intima ed essenziale. Con misura e precisione lo sguardo del regista ne scandaglia il volto, i gesti, la corporeità, nel tentativo di decifrare un modo unico di stare nel mondo, comprenderne lo straniamento e la malinconia. La costruzione filmica riflette e amplifica questo processo di osservazione attenta, invita lo spettatore a impregnarsi di dettagli minimi ma carichi di senso, mentre trasmette il desiderio di vicinanza empatica che lega il regista al protagonista. Il film riesce così, con grande asciuttezza e controllo stilistico, a indagare l’unicità di un’esperienza umana che scarta rispetto all’atteso e che ci obbliga a guardare con occhi diversi la presunta “normalità”.

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Something Is Burning
Algo Está Quemando

Regia: Macarena Astete, Victoria Maréchal, Nicolás Tabilo

Cile, Argentina, 2020, 23’

Dopo lo scoppio delle proteste a Santiago del Cile nell’ottobre 2019, il presidente Piñera impone la più grande limitazione delle libertà individuali dalla caduta di Pinochet: gran parte del paese è sulle barricate. Nelle strade di Antofagasta, nel nord del Cile, Etienne (7 anni) osserva le manifestazioni in corso. Sente un’aria strana in città: la sua scuola è chiusa da giorni, vede edifici e automezzi in fiamme ovunque. In questo stato di sospensione sembra essere più spaventato dai manifestanti che dalla repressione dei carabineros. Trascorre le sue giornate con i videogiochi in attesa di un ritorno alla normalità, ma qualcosa sembra ormai essersi spezzato. I tre registi, ospiti presso una residenza artistica, prendono le loro videocamere e si uniscono alla protesta. Dall’urgenza di documentare un momento storico, trascinati dall’entusiasmo per un possibile cambiamento politico nel paese, sorge un gesto filmico ricco di fascino in cui, sullo sfondo delle manifestazioni che infiammano il Cile, la città rivela le sue contraddizioni e disuguaglianze più profonde di fronte allo sguardo inquieto del piccolo Etienne.

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Wan Ju Wu

Regia: Isabela Quintana Bianchi

Spagna, 2020, 16’

Wan Ju Wu ci spinge a esplorare la convergenza tra il sistema patriarcale e il consumismo attraverso un luogo emblematico: un bordello di bambole. Queste incarnano l’ideale di un corpo femminile iper-sessualizzato, standar dizzato, senza volontà e senza voce, oggetto ultimo del desiderio machista e consumista. Isabela Quintana Bianchi costruisce un oggetto filmico radicale e formalmente rigoroso, che impiega i materiali d’archivio per costruire una genealogia dell’oggettivazione del corpo femminile nella sua declinazione più concreta. Nella scena di sesso al centro del film, la regista ribalta lo sguardo patriarcale per scandagliare senza pudore e senza indulgenza una sessualità onanistica basata sul piacere univoco maschile. Questo sguardo interroga e re-significa l’immaginario riprodotto dall’industria pornografica egemonica, mostrandone la carica implicita di violenza e sottomissione riversata sulle donne. La bambola diventa così estrema e disturbante rappresentazione di un corpo femminile ridotto a oggetto di consumo per il desiderio maschile, ma anche punto di partenza per una messa in discussione dei meccanismi pervasivi, e spesso invisibilizzati, del sistema patriarcale e capitalista.

Now

Regia: Jim Rakete

Germania, 2020, 74’

Da Greta Thunberg al gruppo Extinction Rebellion, per i giovani attivisti la ribellione è un mezzo e un fine nella lotta in difesa dell’ambiente del futuro. Scioperi scolastici, manifestazioni e disobbedienza civile. La nuova ondata di giovani attivisti, guidati da Greta Thunberg, è scesa in strada in tutto il mondo, usando ogni mezzo per risvegliare i politici e il resto della popolazione sui temi del cambiamento climatico che condizionerà il futuro di tutti. NOW è un film sulla forza dei giovani attivisti, sulla loro paura del cambiamento climatico e sulla volontà di trovare modi nuovi e alternativi per vivere in un futuro sostenibile. Attivisti irriducibili come il premio Nobel Muhammad Yunus e l’iconica poetessa rock Patti Smith, contribuiscono con la loro esperienza al movimento per il cambiamento.

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Teach
Profù

Regia: Alex Brendea

Romania, 2019, 82’

La personalità di un insegnante di matematica della Transilvania rurale che insegna agli studenti da casa, ignorando i programmi scolastici in vigore, ci rivela molto non solo del sistema scolastico rumeno ma anche del - la società rumena nel suo insieme. Il testardo anziano insegnante è un seguace delle parole del saggista Constantin Noica, il quale ritiene che in una scuola ideale non ci dovrebbero essere delle lezioni: gli studenti si dovrebbero recare a scuola per liberarsi dalla tirannia dell’apprendimento.

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The Queen Of Casetta
La Regina Di Casetta

Regia: Francesco Fei

Italia, 2018, 79’

A Casetta di Tiara, piccolo paese situato sull’Appennino Tosco-Emiliano, vivono una decina di persone anziane e l’unica ragazza giovane natia del borgo. Il film racconta l’ultimo anno in paese di Gregoria, che sta per trasferirsi per andare al liceo. La raccolta delle castagne, la caccia al cinghiale, il gioco con le lucertole e le rane, la neve d’inverno accompagnano le giornate di Gregoria, quelle dei suoi genitori e dei compaesani. Il passaggio delle stagioni, in questo luogo incantato tra i monti, e i riti dei suoi abitanti strutturano un racconto assai raffinato, che svela il mutare interiore della protagonista e il disincanto nello sguardo dei suoi compaesani. Gregoria, prima di volare via su un’ape a motore e trovare la sua vita, ha appena il tempo di prendere consapevolezza che quello, in fondo, è un luogo magico – come lo definisce lei stessa – dove chi ci è stato da piccolo ritorna anche un po’ bambino. Casetta, luogo così caro al poeta Dino Campana, di cui il film evoca alcune poesie tratte da Canti Orfici, è il micro universo di cui Gregoria è il centro solare. Il regista Francesco Fei osserva con discrezione, ascolta, scopre dettagli di persone che sono paesaggi e di luoghi che sono dell’anima.

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Asylum
Asile

Regia: Victor Ridley

Belgio, 2019, 52’

Ogni anno arrivano in Belgio diverse migliaia di minori stranieri non accompagnati. La maggior parte di loro chiede asilo, come Sahil, un ragazzo afgano di 15 anni. Dopo un anno di vita passato da un centro di accoglienza all’altro, Sahil si unisce a una famiglia ospitante. Questo nuovo ambiente è la speranza di una vita più stabile, in attesa del verdetto dell’Ufficio Stranieri.

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Some Might Say
Lo Que Dirán

Regia: Nila Núñez Urgell

Spagna, 2017, 61’

Due adolescenti musulmane che costruiscono e difendono la propria identità confrontandosi su tradizione e cambiamento attraverso una attività proposta loro a scuola. Tra risate, ribellione e affetto, le due ragazze condividono desideri e dubbi mentre riflettono sui valori culturali, sociali e simbolici delle tradizioni le gate alle loro origini. Ognuna con la propria personalità e identità (molto diverse tra loro), capiranno che gli stereotipi e i pregiudizi sono la peggiore arma contro la tolleranza e il rispetto per gli altri.

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The Open Window

Regia: Daniel Oxehandler, Will Sloan, Alfred Birkegaard

Danimarca, USA, India, 2018, 58’

Mentre l’India corre contro il tempo per permettere di navigare online a tutta la sua popolazione, Deepa e Jaya – due giovani ragazze di un quartiere povero di Delhi – vengono introdotte per la prima volta ad internet attraverso un laboratorio di apprendimento online nella loro scuola. Il loro tempo in laboratorio apre un intero universo di nuove idee, possibilità e prospettive, e fornisce loro nuovi modi di pensare alla scuola, a se stesse.

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Bulletproof

Regia: Todd Chandler

USA, 2020, 85’

L’America come sistema sfuggito a ogni controllo, in cui la diffusione delle armi da fuoco e le conseguenze di questo fenomeno hanno alterato irreversibilmente generazioni di ragazzi. Dopo le stragi nei licei succedutesi nel terzo millennio, le istituzioni scolastiche sono diventati luoghi a prova di proiettile, in cui la paura di una nuova Columbine o Virginia Tech genera contromisure preventive surreali e inquietanti. La macchina da presa di Todd Chandler si insinua con invisibilità wisemaniana tra i corridoi di alcuni licei statunitensi per catturare le testimonianze di un sistema costretto a rivedere le proprie priorità, a deteriorare la quotidianità per proteggersi costantemente dall’ignoto. La gestione del livello di allarme diviene così traumatica quanto un nuovo attentato per gli studenti coinvolti, privati di ogni equilibrio e smarriti in un loop malato, in cui anziché inter[1]rogarsi sulle cause di simili tragedie si preferisce alzare la posta, addestrandosi per prevenire con la violenza altra violenza. Una riproduzione in sedicesimo dell’ideologia di Edward Luttwak su vasta scala, secondo cui la miglior difesa resta sempre e comunque l’attacco. Fino a quando?

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