FDP60_archivio_film_20219

2019
60° edizione

60° Festival dei Popoli - L'archivio completo dei film e delle proiezioni dell'edizione 2019

By The Name Of Tania

Regia: Bénédicte Liénard, Mary Jiménez

Belgio, Paesi Bassi, 85’

Un film che non parla di una singola vita, ma di tante, disperse, invisibili, tragiche vite collettive; un film che concentra la sua attenzione su un singolo volto, un’opera che si colloca in uno spazio paradossale e al tempo stesso originale, cangiante, fluido. Un film che racconta attraverso voci e primi piani: un primo piano che diventa il volto di tutti coloro che condividono la stessa storia. By the Name of Tania è, come dice il titolo, un film che parla “a nome di”, e al tempo stesso “per mezzo di”; un film che raccoglie voci, testimonianze, tracce di esperienze collettive. Le esperienze sono quelle di tante ragazze costrette a prostituirsi in Peru mentre sono alla ricerca di condizioni migliori di vita. Le parole e i pensieri di Tania, il personaggio creato nel film sono allora il montaggio dei loro pensieri, delle loro preoccupazioni, desideri, sogni, paure. La forma scelta da Bénédicte Liènard e Mary Jiménez è quella appunto di un film che ibrida le forme, che permette a chi guarda di essere vicino a quei volti enigmatici, apparentemente senza emozioni visibili, il cui flusso di coscienza collettivo diventa un’unica voce. Ed è in questo modo che quelle voci disperse, inascoltate, trovano finalmente un’occasione di dignità e riscatto.

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Campo

Regia: Tiago Hespanha

Spagna, Portogallo, 2019, 95’

Alla periferia di Lisbona, il “campo” ospita la più grande base militare d’Europa. Luogo di difficile definizione, dove truppe di soldati si addestrano per missioni immaginarie, scienziati osservano stelle e pianeti, un ragazzo al pianoforte suona per gli animali selvatici nascosti nel buio. E ancora: allevatori accudiscono il loro bestiame, troupe cinematografiche girano i loro film. Una voce divina, fuoricampo, ci guida nella scoperta di regole immutabili dell’Essere, nell’apparente disordine del reale. L’Uomo e il suo essere al mondo sono al centro della riflessione del regista Tiago Hespanha. La dimensione mondana e quella trascendentale dell’essere umano si rivelano profondamente intrecciate. “C’è stato un momento – dice la voce celeste che ricostruisce la storia dell’umanità – in cui l’Uomo ha sentito il bisogno di raccontarsi delle storie”. Tanto il luogo quanto il film non consentono di scindere il piano reale da quello finzionale. Un lavoro cinematografico di straordinario spessore filosofico e spettacolare, orientato dall’idea che sia il gioco tra gli uomini a destinare l’Essere. Campo è un luogo dove il tempo quotidiano e la storia dell’umanità sembrano coincidere.

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Las Hermanas De Rocinante

Regia: Alexandra Kaufmann

Germania, Svizzera, 2019, 82’

Per trovare un nome al cavallo, Don Chisciotte, impiega ben quattro giorni e quattro notti, racconta Cervantes, perché Ronzinante, in verità un ronzino malandato, è forte e maestoso ai suoi occhi e deve avere un nome degno di tanto vigore. A differenza di Don Chisciotte, Lois, proprietaria di un rifugio per cavalli maltrattati sulla Costa Blanca, in Spagna, sa bene che i suoi sono denutriti o in fin di vita ma, come il protagonista del celebre romanzo, non si arrende. A dispetto delle difficoltà economiche e familiari, Lois cura i suoi cavalli stabilendo con loro un contatto amorevole e di fiducia profonda. L’aiutano Xana e Paula, due bambine che si trasformano presto in adolescenti modificando i loro interessi e allontanandosi l’una dall’altra. Un documentario che esalta il rapporto umano/animale attraverso una vivida dimensione sensoriale e che sprigiona i suoi effluvi visionari restando in sospensione, come il nastro di una pellicola in controluce. Il reale è qui un cono eterno d’ambra che trattiene il miele della parola e il gesto senziente dell’adulta Lois e che riverbera, a sua volta, la sequenza di silenzi fanciulli dove criniere di cavalli e capigliature di ragazze coesistono in una sorellanza di forme e in un segreto di pensieri che punta al mare e al suo battesimo di luce.

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My English Cousin
Mon Cousin Anglais

Regia: Karim Sayad

Svizzera, Qatar, 2019, 83’

Fahed è il protagonista delle cronache dell’esilio che suo cugino, Karim Sayad, gli dedica. Dopo anni di duro lavoro – o lavori, dato che ne ha almeno due alla volta - il cugino inglese ha deciso di lasciare Grimsy e di tornare in Algeria. Sogni e aspirazioni si sono infatti dileguati nella fatica quotidiana di una vita sempre più subalterna. “Vorrei interrogare gli spettatori attraverso il destino di Fahed come lavoratore povero nel Regno Unito post-Brexit per far luce sulle realtà socio-politiche che incarna. My english cousin racconta la necessità di riappropriarsi di determinati valori dopo decenni di esilio, il desiderio di reinventarsi, il bisogno di appartenere a qualcosa”. [K.Sayad] Maneggiare il microscopico mormorio del volto del cugino inglese, nel quale frustrazione e allegria sono resi da un’unica movenza espressiva - comica e struggente insieme - rientra nella forma di una regia-spalla silenziosa, senziente, atta a garantire la ‘battuta’ del protagonista che, nel caso di Fahed, è sovente un silenzio ermetico ed oppositivo. La centratura di una condizione marginale e replicabile, esaltata però da una cornice di ‘unicum’ quasi eroico, si spinge al ritratto documentaristico pop osservazionale, se così si può dire, in una integrità autoriale condivisa e mai dogmatica.

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Not a Dream
Non è Sogno

Regia: Giovanni Cioni

Italia, 2019, 96’

La vita in carcere tende ad assumere una consistenza onirica. La vita prima dell’imprigionamento, col suo senso e i suoi significati, subisce una battuta d’arresto che rompe bruscamente con tutto ciò che è stato. E così le giornate scorrono come sogni, senza consistenza e senza significato, e tutto prende a ruotare attorno alla colpa del reato commesso. “Io sono assassino! Io sono assassino! E chi se lo credeva?”. A interrompere l’omogeneità delle giornate nel carcere di Capanne (Perugia) è arrivato il Laboratorio Nuvole, che ha portato “Cosa sono le nuvole” di Pasolini perché venisse scomposto e reinterpretato dai detenuti. Così, durante le prove davanti alla macchina da presa, si innesca una coazione a ripetere le stesse scene, le stesse battute, lo stesso ruolo moltiplicato per tanti uomini fino al cortocircuito e alla genesi di un dispositivo cinematografico in cui la mano di Cioni è inconfondibile e insostituibile. “Ma qual è la verità? Quello che penso io di me? O quello che pensa la gente? O quello che pensa quello là dietro?”. La regia di Cioni ha la forza di creare uno spazio cinematografico originale aperto ai margini e agli esiliati, che ha fatto piazza pulita delle convezioni per lasciare spazio all’imprevisto e imprevedibile dell’incontro.

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Our Defeats
Nos Défaits

Regia: Jean-Gabriel Periot

Francia, 2019, 97’

È quel grido del cinema che ha squarciato la storia recente della cultura umana a essere ascoltato dai giovani protagonisti di Nos défaites, che vivono il “qui e ora” del nostro tempo che sembra invece non avere più alcuna storia. Il grido di quel cinema politico e sociale degli anni Sessanta e Settanta, nella cui eco risuonano i rumori di quelle strade del mondo vero e iniquo, si diceva, ovvero di quelle città residuali, prodotto di uno sviluppo economico aggressivo e di una politica fallimentare. Tra maggio e giugno 2018, l'autore JeanGabriel Périot ha lavorato con dieci studenti di una classe di cinema di una scuola superiore francese. Gli studenti hanno (ri)messo in scena alcune sequenze di scioperi, resistenza e dibattiti sul tema del lavoro e delle ingiustizie sociali appartenenti a film entrati nella storia del cinema, inclusi quelli di Jean-Luc Godard e Alain Tanner. Nos défaites mostra i risultati di questo lavoro e propone una serie di sorprendenti interviste agli studenti realizzate dal regista sul contenuto e la forma delle scene interpretate, su concetti come "classe", "sindacato" e "impegno politico". Un lavoro raffinato che esplora le forme del pensiero nel suo continuo tramontare e risorgere, e l'immagine cinematografica, l'irripetibile riflesso di luce sull'animo umano.


That Which Does Not Kill
Sans Frapper

Regia: Alexe Poukine

Belgio, Francia, 2019, 85’

Il tema dello stupro, trasversale e polifonico in sé, rende la dicitura di ‘tema’ quasi polverosa, anacronistica, sminuente. Se si pensa al numero di denunce, al lavoro di abbattimento degli stereotipi compiuto dal movimento femminista, ai casi di femminicidio come tragico parallelo del crimine sul corpo, quando non diretta conseguenza dello stesso, ecco che lo stupro non è un tema tra molti, quanto un irrisolto agentivo del patriarcato. Alexe Poukine costruisce un dispositivo filmico di trattazione dello stupro come ‘parola’ e non come ‘tema’ capace di ribaltare l’immaginario spettatoriale attraverso il residuo mnemonico di chi lo ha subito. La carica detonante del racconto del sé dentro e attraverso le parole di un’altra è fulmineo. Lo stupro di Ada diventa quello di tutte, non una di meno. Come sensori gemelli le parole per dirlo si toccano e scardinano l’esperienza isolata facendosi matrice verbale del dolore. That witch does not kill elude la contraffazione del sistema riproduttivo “colpa/castigo“ come rimozione della violenza subita, rimettendola altresì in una sequenza emotiva proteiforme. Lo sguardo di Poukine, lontano dai ‘carcerifici’ e dai legalismi si fa attesa curativa della decostruzione dei vissuti dentro la decostruzione delle parole per raccontarli

A Tiny Place That Is Hard To Touch

Regia: Shelly Silver

Giappone, USA, 2019, 39’

Il senso della fine macera gli oggetti del mondo e ci dà esperienza della concreta impalpabilità della morta vita dell’esistente, senza riuscire a dirla una volta per tutte. Questa è una delle infinite vie in cui si può penetrare la visione di A Tiny Place. Tutto parte da Tatekawa, un canale che costeggia l’appartamento della traduttrice giapponese – voce guida del film - che risponde alle domande di una ricercatrice americana impegnata nello studio del calo demografico in Giappone. Le parole trasbordano da piccoli pezzi di mondo incastrati negli occhi. Il femminismo della presunzione dell’una e l’eccesso di distacco autocritico dell’altra fanno da contraltare ad accadimenti fantascientifici. Della sua residenza artistica giapponese, Shelly Silver, restituisce un film quasi senza volti, dalla didascalia immaginifica. Siamo di fronte a un esodo documentaristico; non più cinema del reale, ma cinema con il reale, dove l’uso stesso della realtà oltrepassa i confini del genere e precipita nel suo nucleo interno e intangibile. Ogni cosa una fantacosa che lambisce la propria fine, in cui l’amore tra due donne è eco di un caos generatore di ineguaglianza invisibile, come l’aria. La realtà aumentata dall’immersione non è mai stata un posto tanto piccolo eppure così difficile da toccare.

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Cerro Quemado

Regia: Juan Pablo Ruiz

Argentina, 2019, 60’

Cerro Quemado è la storia di un viaggio di due donne, una madre e una figlia, per riunirsi con la nonna di quest’ultima, che da tempo vive isolata nelle montagne della provincia di Salta, in Argentina. Il film restituisce il respiro, la durata di questo lungo cammino, in cui tre generazioni di donne, appartenenti alla stessa etnia, si ritrovano, si confrontano, mettono in gioco le loro diverse scelte di vita, proprio a partire dalla più radicale, quella di Felipa Zerpa, la nonna, che ha deciso di vivere tra le montagne per mantenere le tradizioni ancestrali del suo popolo. Tre ritratti che si stagliano lungo il paesaggio di una delle zone più impervie dell’Argentina, in un film che fa del paesaggio stesso non il semplice sfondo del racconto, ma il fondamento reale dell’esistenza di chi vi appartiene profondamente (d.d.) «Cerro Quemado è il ritratto di tre donne appartenenti a diverse generazioni della stessa stirpe coya; un’indagine sulla loro cultura, i loro riti e le loro tradizioni; un’immagine di tre donne separate dal loro destino, riunite nella terra ancestrale in cui sono nate».


Missed Embrace

Regia: Faezeh Nikoozad

Germania, Iran, 2019, 53’

Anni dopo la perdita dei genitori, avvenuta durante l’infanzia, Faezeh decide di riscoprire, attraverso la costruzione del racconto cinematografico, il suo passato. La regista intraprende una duplice indagine: una nel presente, incontrando le persone a lei vicine, l’altra nei ricordi di famiglia, riportando alla luce vecchie foto - grafie e home movies. Proprio nelle immagini private dei VHS Faezeh nota la presenza di un uomo sconosciuto che gradualmente si rivela aver avuto un ruolo fondamentale nella sua infanzia. Una presenza che è la traccia di una storia che la regista decide di (ri)scoprire. Chi è la figura misteriosa? Perché nessuno ne vuole parlare? È ancora in vita oggi? Missed Embrace racconta la storia di una famiglia come tante, appartenente alla classe media nell’Iran degli anni ‘60, le cui vicende diventano emblematiche dei complessi cambiamenti che la rivoluzione islamica ha introdotto nella definizione dei ruoli familiari e nei rapporti parentali.


Moshta

Regia: Talheh Daryanavard

Belgio, 2019, 59’

Lungo le spiagge di un’isola iraniana, lontani dal frastuono di una società che sta vivendo un rapido sviluppo economico, tra incantevoli paesaggi alcuni uomini, pescatori e costruttori di grandi barche sembrano ancora vivere un tempo antico, e dimenticato. Il lavoro di Daryanavard Talheh è dedicato all’essere umano come parte della natura che costruisce il tempo della vita, le relazioni umane, l’essere al mondo. Allo ‘stare’ dell’uomo, dunque, che non evoca la fissità di una natura bella e immutabile, fatta solo per essere contemplata, ma quel movimento generativo del continuo venire al mondo della natura stessa. Nello sguardo di Talheh infatti, la costruzione lenta e meticolosa del ventre di una nave, che affiora dallo sfondo del racconto cinematografico, sembra simboleggiare da una parte il desiderio umano di partire e, dall’altra, il bisogno di ricordare di essere tornati per sempre in un luogo. Ecco il doppio movimento tellurico che fa vibrare le immagini di Moshta. Il film è costruito sulla osservazione di uomini che osservano sconfinamenti, e su un montaggio che passa dal dettaglio al campo lungo e lunghissimo. Personaggi immersi nel silenzio, distanti e uniti da legami profondissimi, lasciano ogni tanto fiorire dialoghi senza tempo.

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Reynard
Raposa

Regia: Leonor Noivo

Portogallo, 2019, 40’

La regista Leonor Noivo e l’attrice Patrícia Guerreiro, per parlare del segreto che condividono e su cui si basa la loro amicizia, decidono di creare il personaggio di Marta, la protagonista del film. Il loro segreto è ciò che la medicina chiama anoressia e che le autrici di Raposa (“volpe”, in portoghese) considerano una possibilità di essere al mondo. Il rapporto con il proprio corpo, con lo spazio in cui esso vive, con il cibo che lo nutre, con i pensieri che lo abitano, con il tempo che lo consuma, questo rapporto con se stessi e il mondo viene messo in scena da Patrícia, le cui azioni sono commentate dalla sua voce fuoricampo, e filmato da Leonor. L’incontro tra le due donne, ovvero la possibilità di dirsi di sé e del loro essere al mondo, è determinata dall’invenzione di un personaggio che non è né l’una né l’altra, dal momento che regista e attrice hanno costruito uno spazio di transito tra il reale e l’immaginario in cui poter riversare le loro sensibilità. Realizzato in 16 mm, Raposa esprime mediante un’estetica potente la sacralità dell’esserci e offre una straordinaria occasione di riflessione sulla forma del reale e sul limite (ammesso che ci sia) tra finzione e realtà.

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Theodor

Regia: Maria Boldrin

Italia, 2019, 48’

Theodor sta per compiere 5 anni, ma non solo. Sta per dirigere un pezzo del film che la sua amata Momo vuole girare su di lui e sul suo regno di sogni: l’appartamento all’ultimo piano dove vive con la sua famiglia. La videocamera è un nuovo, straordinario componente, un compagno di avventure, capace di farci vedere come siamo quando non ci vediamo e chi siamo quando ci cerchiamo attentamente nello schermo. Maria-Momo, regista del film, percorre il senso a lei smarrito dello scorrere metropolitano di una Vienna nebulosa e magi ca, allineandosi agli occhi di Theo, abile a semplificare il mondo. Bisonti da braccare e pinguini che si tuffano nello yogurt coesistono con l’aspirazione del piccolo regista a filmare ciò che la gente fa, a testimonianza di uno sguardo primigenio e assertivo sul reale degno degli albori del cinema. Se non è una novità affidare ad un giovanissimo protagonista una handycam, lo è di certo una scrittura così immediata ed autentica. Maria Boldrin non inventa la delicatezza che usa ma la usa e basta, con un andamento narrativo colmo di gesti di accettazione ai quali non si è usi nella realtà né, talvolta, nel cinema documentario.

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This Film About Me

Regia: Alexis Delgado Burdalo

Spagna, 2019, 60’

In questo film viene portata all’estremo una delle lotte fondamentali e fondanti del cinema documentario, una lotta senza ferimenti, senza violenza fisica ma talvolta di grande e devastante potenza: quella tra soggetto e regista. Il conflitto si esprime/divampa interamente sul piano cinematografico, sul gioco di potere per ottenere il controllo dell’immagine: la protagonista impiega tutte le sue energie per appropriarsi dell’immagine che viene prodotta dall’occhio meccanico che la fissa, il suo sforzo per il controllo dell’immagine di sé, del film nella sua totalità, è enorme e sovrasta tutto e tutti: il regista, lo spettatore, lei stessa. Dall’altro lato il regista viene investito dalla forza della donna che sta catturando con la macchina da presa, come travolto da un’ondata di piena che potrebbe trascinarlo lontano dal suo progetto cinematografico: il regista si è volontariamente e coscientemente esposto a un grande rischio, spesso eluso nel cinema, al fine di arrivare in fondo a una ricerca filmica dolorosa e senza vincitori né vinti. Una ricerca coraggiosa che lascia aperta una ferita insanabile, una denuncia dell’inevitabile atto di forza compiuto nell’osservare.

All Cats Are Grey in The Dark
Dringend: Nachts Sind Alle Katzen Grau

Regia: Lasse Linder

Svizzera, 2019, 18’

A volte la macchina da presa tende ad assomigliare al microscopio per il modo di osservare il reale: si avvicina tanto al suo soggetto da cogliere ciò che da lontano sarebbe impossibile distinguere. Altre volte tende verso le telecamere di sorveglianza: un occhio che guarda da una certa distanza un determinato punto dello spazio e ciò che lo attraversa, immobile, distaccato. In questo film le due tendenze si sono coniugate in una forma di osservazione ibrida. Il regista è riuscito a penetrare in un microcosmo isolato e privato, che sarebbe passato inosservato se non per qualche elemento di stravaganza esteriore del tutto insufficiente a una descrizione approfondita. Una volta entrato a far parte di questo microcosmo ha deciso di stare in disparte e osservare con grande attenzione fino a cogliere episodi e momenti che, abilmente intrecciati in una narrazione tanto semplice quanto efficace, raccontano di un uomo e dei due suoi amatissimi gatti grigi, del loro rapporto simbiotico e amorevole, della loro avventura in attesa di una cucciolata. Un ritratto divertente ma non irrispettoso di un piccolo universo marginale, solo apparentemente distante.

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Flesh
Carne

Regia: Camila Kater

Brasile, Spagna, 2019, 12’

Il corpo femminile deve subire innumerevoli giudizi, valutazioni, distorsioni prima di arrivare alla donna che lo possiede. Le richieste di adeguamento, di corrispondenza a standard astratti, le aspettative proiettate sul corpo hanno un impatto determinante nella propriocezione delle donne, che spesso faticano ad avere un rapporto pacifico col corpo che contiene il loro essere. In questo breve film d’animazione, cinque donne raccontano il loro rapporto con le cinque fasi che scandiscono i ritmi biologici femminili: dall’infanzia all’età avanzata cambia il modo di raccontarsi e insieme cambiano le tecniche d’animazione utilizzate, che si adattano e si modellano in base ai racconti e alle personalità delle protagoniste. Denominatore comune: la resistenza a lasciare che il proprio corpo venga trasformato in oggetto, depersonalizzato e ridotto a carne da trasformare, rendere appetibile o scartare. Una resistenza fatta di riappropriazione e accettazione del proprio essere così com’è, un percorso tradotto in immagini da tecniche d’animazione di altissima qualità che danno a questo film grande forza visiva e cinematografica.


I Have Seen Nothing, I Have Seen All

Regia: Yaser Kassab

Libano, Svezia, Siria, 2019, 19’

Dopo il precedente On the Edge of Life Yaser Kassab torna a raccontare la guerra nella sua Siria - dalla quale è fuggito trovando rifugio nella sicura Scandinavia - dal punto di vista remoto e separato dell’esule al quale però si somma una dimensione intensa e intima: la prospettiva di chi resta legato alla propria terra dilaniata attraverso il filo duro e sottile della voce degli amati che non partono. Di quelli vivi, ma anche di quelli morti che nonostante la sepoltura non conoscono requie. Perché neppure in questo la guerra di Siria è uguale alle altre: anche i resti dei morti, sepolti nei cimiteri improvvisati in mezzo alle macerie della città di Aleppo, si trovano sottoposti all’obbligo di essere spostati altrove, minacciati dal rischio di essere travolti anche loro dal caos e della violenza che rivolta le strade e i palazzi, e perdersi nell’oblio.

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Mars, Oman

Regia: Vanessa Del Campo Gatell

Belgio, 2019, 20’

Nella penisola arabica dell’Oman la distanza dalle stelle si è accorciata. Beduini ed astronauti si ritrovano a vivere lo stesso, arso, deserto: i primi da tempo immemore, i secondi perché quella regione, tanto simile al Pianeta Marte, è perfetta per i loro addestramenti. Da quando sono sbarcati i marziani – o astronauti, dipende dal punto di vista – un bambino vuol saltare più lontano, l’anziano rammenta il nome antico degli astri, due entusiaste liceali studiano la via dell’acqua su Marte e un beduino, in groppa al suo cammello, non crede ai suoi occhi quando una donna in tuta lucente gli passa davanti mentre osserva attenta quella che per lui è solo una pietra senza importanza. Vanessa Del Campo Gattell, regista del film, rende conto della mutazione visiva ed emotiva dello spazio terrestre e dei suoi abitanti attraverso una narrazione frammentata, eppure compiuta, del sé nell’Universo. “Una volta qualcuno mi disse che ci sono più stelle nel cielo che granelli di sabbia sulla Terra” racconta la voce all’inizio e alla fine del film “Mi sentii piccola e, allo stesso tempo, parte di questa immensità”. La volta celeste, misura e incanto di uno sconfinamento straordinario e possibile insieme, resta la materia reale, unica e inconquistata dei sogni. Ad Oman come su Marte.

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Progresso Renaissance

Regia: Marta Anatra

Italia, 2019, 20’

Tre ragazzi passano l’estate tra il mare e le strade della cittadina sarda dove abitano, percorrendole in bicicletta, esplorando i sentieri in mezzo alla vegetazione, attraversando scheletri metallici e ciminiere. Riposano e prendono il sole dando le spalle a un enorme impianto industriale sfocato dalla calura e dalla grana delle immagini. Dove siamo è chiaro, ma il quando non lo è altrettanto: i tre ragazzi sembrano attraversare un tempo indefinito, in un continuo scambio tra presente e passato. In questo denso ed evocativo corto dagli echi pasoliniani il lavoro sull’archivio non è volto verso una presentificazione e attualizzazione delle immagini del passato, la direzione dell’operazione è anzi contraria: il presente ingiallisce e le sue immagini sgranano, si fondono con quelle del passato rendendo arduo distinguere i due piani temporali. Il tempo si appiattisce e si concentra in un unico punto, un tempo circolare che implicitamente pone un’istanza critica sul concetto di progresso. La linea del tempo si piega in una curva che torna indietro e guardare al futuro assomiglia molto a guardare al passato. Progresso Renaissance è una domanda all’attualità, un invito a ripensare la linearità del tempo.

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Sandoval’s Bullet
La Bala de Sandoval

Regia: Jean-Jacques Martinod

Ecuador, 2019, 18

È possibile morire e non rendersene conto? Forse siamo già tutti morti”. L’arte cinematografica ha di peculiare di essere soggetta agli stessi limiti dell’uomo, ma di avere la capacità di illudere di saperli superare attraverso l’immaginazione e la costruzione di mondi visivi proiettati oltre qualunque limite. L’uomo incontra la morte e dopo di essa la vita terrena è irreversibilmente interrotta, ma il cinema sa immaginare e proiettare nel mondo terreno cosa potrebbe succedere dopo. L’esistenza di Isidro, detto Sandoval, ha sfidato due volte l’ineluttabilità della morte, una sfida assoluta e scandalosa. Martinod ha colto tale sfida, l’ha tradotta nel linguaggio cinematografico cercando di dare forma visiva a ciò che i limiti umani ci rendono invisibile e impensabile, forme che rimangono tali, non più precisamente definibili così come non è dicibile cosa ci sia dopo la morte, come macchie di Rorschach in cui è l’osservatore a proiettare la propria interiorità. “Cosa pensi di fare dopo la morte? Risorgere. E dopo la resurrezione? Vivere in mezzo ai cadaveri”.

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Caterina – Voice of the Folk
Caterina

Regia: Francesco Corsi

Italia, 2019, 79’

Caterina donna, artista, anima. Un’emozionate ritratto di Caterina Bueno, etnomusicologa, cantante e “raccattacanzoni” che, a partire dagli anni ‘60, portò all’attenzione del grande pubblico il preziosissimo patrimonio di canti e tradizioni musicali pazientemente raccolti nell’instancabile lavoro di ricerca svolto sul territorio (la Toscana e il centro Italia i suoi terreni di caccia preferiti) e diffusi poi in dischi e concerti che riscossero un’attenzione internazionale. Il lavoro e l’arte di Caterina nacquero dalla consapevolezza che i canti popolari fossero canti di tutti, trasmessi di generazione in generazione e continuamente rimaneggiati. Non era importante ricostruirne la versione filologica, quello chi cui c’era bisogno è che si seguitasse a cantarli. Il film di Francesco Corsi, impreziosito da alcune tre le esecuzioni più pregevoli tra quelle eseguite da Caterina insieme ai tanti musicisti che l’hanno accompagnata (tra cui un giovanissimo Francesco De Gregori) raggiunge una felicissima armonia nel calibrare bellissimi materiali d’archivio, momenti di vita, racconti e ricordi di coloro che hanno preso parte a quella straordinaria stagione della musica italiana. Viva Caterina. Caterina viva.


Ice
Ghiaccio

Regia: Tomaso Clavarino

Italia, 2019, 72’

Nella Val Pellice, in Piemonte, da qualche tempo si assiste ad un particolare fenomeno. il territorio, ormai spopolato, vede arrivare nuove persone in cerca di un lavoro e di una nuova vita: sono richiedenti asilo, da vari paesi dell’Africa, persone che si trovano sospese, in attesa che una decisione sulla loro permanenza arrivi prima o poi. Sei ragazzi che arrivano dal Gambia e dalla Sierra Leone, sei persone in fuga che si ritrovano in un territorio montuoso, così diverso da ciò che è loro familiare. Ecco che l’attesa si trasforma in una attività: i ragazzi formano la prima squadra di Curling (gioco a loro completamente sconosciuto prima) composta da richiedenti asilo con l’obiettivo di dare un senso alla loro permanenza in Val Pellice e allo stesso tempo scoprire qualcosa di diverso. Il film racconta questa impresa, il formarsi della squadra e la gara a cui il team partecipa con la segreta speranza di vincere una medaglia. Un film dalla forza narrativa particolare, che con uno sguardo solo apparentemente lieve, e con un tono che rimanda chiaramente alla commedia, racconta però una contemporaneità spesso assente dalle cronache quotidiane.

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Il Passo dell’acqua

Regia: Antonio Di Biase

Italia, 2019, 53’

Attraverso le storie di tre personaggi anziani (un pastore, una contadina devota, un pescatore) il regista ci immerge nei gesti e nei ritmi di un Abruzzo che appare quasi fuori dal tempo. Sono le vestigia di un mondo rurale che la modernità sembra assediare, come la casa del pescatore, una rovina circondata da palazzoni che incombono minacciosi. I personaggi ci appaiono avvolti in una sorta di incantamento, seguendo codici e rituali che parlano di una diversa relazione con la natura, gli animali e le stagioni. Il film li segue con un ritmo dal respiro lento, scandito sull’incedere dei protagonisti, che lascia allo spettatore la possibilità di affacciarsi su un’esperienza umana fragile e allo stesso tempo condivisa. La qualità della pellicola dà ad ogni quadro un’intensità pittorica, che sembra riecheggiare un’altra materialità del tempo.

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Medium

Regia: Laura Cini

Italia, 2019, 83’

Siamo così distanti dalle cose che non conosciamo, così distanti da esserne protetti e torturati allo stesso tempo. I personaggi di Medium dolorano e gioiscono perché incastonati nelle cose che si vedono, si toccano e si sanno del mondo, tanto vicini l’uno all’altra quanto infinitamente distanti da ciò che non sanno e non hanno mai saputo di sé e delle loro vite. Il nuovo film di Laura Cini segue il cammino tortuoso di chi indaga quotidianamente ciò che del passato non sa, perché è il solo modo che ha di costruire il giorno nuovo. Il sole al centro di questo universo, composto di anime grandi che danzano attorno a una assenza, è una donna medium, dalla quale ci si reca per comunicare con i cari che non ci sono più. La donna, quando è connessa energeticamente con l’aldilà, è attraversata da un fiume di parole che arriva e infonde in chi le sta di fronte un medicamento che lenisce il dolore prodotto della perdita. Dall’assenza. Dal non sapere perché. Un film rispettoso dell’intimità dei protagonisti, che si affidano totalmente a ciò che lo sguardo della telecamera può solo: vedere. Ascoltare qualcosa che diventa per lo spettatore comprensibile piano piano. Creare con il cinema una fascinazione rara per l’irreale del mondo


Mister Wonderland

Regia: Valerio Ciriaci

Italia, USA, 2019, 53’

Mister Wonderland racconta l’incredibile storia di Sylvester Z. Poli, un artigiano di umili origini che a fine Ottocento emigrò da un paesino della lucchesia agli Stati Uniti, dove divenne il più grande impresario teatrale e cinematografico del suo tempo. Nel 1872 il giovane scultore Zeffirino Poli lascia il suo paese tra le montagne vicino Lucca per cercare fortuna all’estero. Qualche anno dopo, lo ritroviamo con il nome di Sylvester al centro della vita culturale ed artistica degli Stati Uniti. Proprietario di più di trenta splendidi teatri e cinema sparsi per il Nord Est, è diventato un punto di riferimento per un’intera generazione di intrattenitori e spettatori. Malgrado il grande successo, la memoria di questo personaggio è oggi quasi del tutto svanita. Due discendenti, Tim in Connecticut e Luana in Toscana, vanno alla ricerca di quel che rimane della vita e della carriera di S. Z. Poli. Alternando passato e presente, materiale d’archivio e animazione, Mister Wonderland ricostruisce il viaggio di Sylvester dalle montagne toscane all’America dei ruggenti anni ‘20. L’eredità di Poli attraversa continenti e generazioni, e rivela come il genio creativo di un migrante plasmò l’immaginario di un’intera epoca.

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A Man must be strong
Un uomo deve essere forte

Regia: Ilaria Ciavattini, Elsi Perino

Italia, 2019, 62’

Chi è Jack? Sono io, la mia persona, tutto quello che ho affrontato, tutto il mio percorso fin qui”. Il lavoro delle registe Ilaria Ciavattini e Elsi Perino racconta la transizione ftm di Jack. Ovvero la storia di Jack, che si racconta al mondo e al ricordo di sé per quattro anni di riprese. Il film è stato costruito seguendo il tempo della trasformazione del corpo femminile e la venuta al mondo di un uomo: della sua forma fisica, del suo sentire, del suo agire, del suo patire. “Un uomo deve essere forte”, ricorda Jack al termine di una confessione che stabilisce la cifra stilistica di questo film, intimo, sì, ma anche profondamente rispettoso di quel confine sacro, umano e professionale, che esiste tra chi filma e chi è filmato. Lo sguardo del protagonista sul mondo che si lascia dietro incrocia lo sguardo di chi, con lui, racconta il mondo che risorge davanti. Jack è filmato in relazione con i suoi familiari e i suoi amici, nella gestione di intricati aspetti legali, perché è la sentenza di un giudice che gli consente di venire al mondo; di aspetti economici, perché nascere costa. Una voce amica per telefono li definisce così: ‘trattamenti medico-chirurgici per l’adeguamento dei caratteri fisici dell’identità psico-sessuale maschile.

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Vulnerable Beauty
Vulnerabile Bellezza

Regia: Manuele Mandolesi

Italia, 2019, 75’

Tra le macerie delle case e delle fattorie distrutte dal terremoto del 2016, mentre si continua a demolire e a ricostruire, Vulnerabile bellezza scova lo spazio umano, intimo e inviolato di una giovane famiglia, e fa levitare l’animo dello spettatore tra i cieli e le terre incantevoli di quel pezzo d’Italia con la sua armonia. Scandito dal passare delle stagioni, il film di Manuele Mandolesi racconta con discrezione, pur rimanendo a un livello molto profondo di indagine, la vita di una famiglia di allevatori, Michela, Stefano e i loro due piccoli figli Diego e Emma, nel momento più difficile della loro storia, quando si trovano costretti a ricostruire la propria esistenza dopo aver perso tutto. Mentre le intense giornate scorrono, le nuove stalle si costruiscono, cresce la coscienza di essere ancora nel mondo, di “averne la possibilità”, come osserva Michela. Rimane l’incanto di certe scene che schiudono universi rari da trovare, come quella in cui osserviamo, dall’esterno di una finestra chiusa di una abitazione d’emergenza, tutta la famiglia prepararsi per andare a letto. Il film nasce da una osservazione raffinata e attenta, che custodisce i personaggi invece di esporli, strutturandosi sul tempo di azione di legami familiari molto profondi.

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Austerlitz

Regia: Sergei Loznitsa

Germania, 2016, 93’

L’omonimia del film con il testo dello scrittore tedesco W.G. Sebald non è il segnale di un’ispirazione diretta, ma di una indiretta affinità tra il filo del ragionamento costruito dal film e uno dei temi fondamentali del libro: la forma architettonica e strutturale dei campi di sterminio è l’apparizione più esatta dell’idea oscura e paradossale della soluzione finale nazista. Austerlitz è un film in bianco e nero ma non è un film d’archivio: torna a ragionare sul ruolo politico della memoria scompaginando i luoghi comuni dell’Europa contemporanea sempre più pericolosamente incapace di pensare e di sentire oltre che di ricordare. Come già nei film precedenti, Loznitsa - che questa volta esplora e osserva il campo di sterminio di Sachsenhausen, oggi divenuto sito museale - costruisce per le immagini una struttura rigorosa, una forma fatta di scelte e tagli essenziali, di punti di vista netti, di soluzioni tecniche raffinate e quasi impercettibili, ricorrendo in modo spiazzante all’ironia del grottesco, usando il Tempo come spazio operativo e critico del discorso che scrive i suoni e le immagini in un brillante teorema audiovisivo. (s.g.) “Questo è il luogo dove sterminavano la gente; questo è un luogo di sofferenza e dolore. E ora io sono qui. Un turista. Con tutte le tipiche curiosità del turista. Senza la minima nozione su cosa possa significare essere un prigioniero in un campo di concentramento, essere marchiato con un numero, aspettare tutti i giorni la morte, aggrapparsi tutti ogni giorno alla vita. Sono qui e guardo la macchina per lo sterminio del corpo umano. Tracce di vita, tempo fa, molto tempo fa, qui e ora.

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Blockade
Blokada

Regia: Sergei Loznitsa

Russia, 2006, 52’

Primo della serie di film sugli archivi cinematografici sovietici, ricostruisce i novecento giorni dell’assedio di Leningrado (San Pietroburgo), dall’8 settembre 1941 al 27 gennaio 1944, durante la Seconda Guerra Mondiale. Ai materiali in bianco e nero, originariamente muti, viene aggiunta una colonna sonora priva di voce di commento e di musica e tessuta invece - nello studio del fonico Vladimir Golovnitski – della trama sottile dei suoni d’ambiente, dei passi nella neve, delle voci indistinguibili che animano le strade, degli scoppi dei cannoni. Le immagini che ritraggono la vita quotidiana dentro la colossale tragedia, la cronaca minuta del contorcersi discreto di una città che resiste nella tormenta della guerra, riemergono dal passa to remoto nel quale sono state registrate e tornano presenti attraverso una nuova freschezza percettiva. Vincitori e vinti si cambiano di posto tra vittime e carnefici, mentre il mondo, in un tempo apocalittico sospeso e rarefatto, assiste immobile alla Storia che non smette di ripetersi.


In the Fog
V tumane

Regia: Sergei Loznitsa

Germania, Russia, Lettonia, Paesi Bassi, Bielorussia, 2012, 127’

Il secondo film a soggetto di Sergei Loznitsa è ambientato durante la Seconda Guerra Mondiale, nella Russia occidentale occupata dai nazisti. Il protagonista, un operaio ferroviario, viene arrestato dai tedeschi con l’accusa di essere responsabile di un attentato. Lasciato libero mentre i suoi colleghi muoiono impiccati, l’uomo si trova accusato anche dai suoi, di essere un traditore. Solo, odiato da tutti, al protagonista restano niente altro che i propri principi sui quali contare mentre tutto intorno infuriano l’odio e la violenza. Loznitsa non racconta la guerra combattuta del sangue e dell’azione, ma torna a quel passato remoto riaccendendone un’incandescenza che brucia ancora oggi. (s.g.) “Mi sembra che dopo le esperienze attraversate dal genere umano nel ventesimo secolo, sia giusto parlare del collasso dell’umanesimo, così come convenzionalmente interpretato in letteratura e nell’arte. Condivido la prospettiva dello scrittore russo Varlam Shalamov, che è passato attraverso tutti i cerchi dell’inferno nei gulag di Stalin: Nella nuova prosa – dopo Hiroshima, dopo il self-service di Auschwitz e dopo il gulag di Serpantinka nella regione di Kolyma, dopo tutte le guerre e le rivoluzioni - tutto ciò che è didattico deve essere rifiutato. L’arte non ha il diritto di predicare. Nessuno può insegnare ad altri, nessuno ne ha il diritto. L’arte non migliora le persone e neppure le rende migliori”.


Maidan

Regia: Sergei Loznitsa

Ucraina, Paesi Bassi, 2014, 133’

Una piazza – Maidan, nel centro di Kiev -, un regime – quello del filorusso Yanukovich - e una miccia – le decisioni del governo ucraino di rifiutare, alla fine del 2013, gli accordi con l’Europa, scegliendo al contempo la sottoscrizione di un nuovo legame formale con la Russia: così inizia una delle più grandi rivoluzioni popolari di questo inizio secolo. Sergei Loznitsa racconta la crisi ucraina restando dentro e intorno alla piazza dalla quale tutto ha avuto inizio e nella quale tutto finisce, registrando i pubblici comizi, le proteste pacifiche, i combattimenti, le morti. Modulando il punto di vista intorno a una distanza quasi pittorica, ricostruendo nel montaggio una cadenza ordinata degli eventi, il film non solo riproduce l’evoluzione di una rivolta che diventa insurrezione, ma la inserisce, trasfigurandola, nella più ampia storia della democrazia occidentale moderna. (s.g.) “Il mio scopo è di portare lo spettatore in Piazza Maidan e di fargli sperimentare i 90 giorni di rivoluzione così come si sono svolti. Volevo tenermi a distanza dagli eventi, lasciando lo spettatore solo, senza nessuna voce di commento. Ho usato piani lunghi per immergere lo spettatore nel racconto. Maidan è un enigma che devo ancora risolvere”.

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State Funeral

Regia: Sergei Loznitsa

Paesi Bassi, Lituania, 2019, 135’

Il più recente e monumentale tra i film d’archivio di Loznitsa lavora su un altro evento cruciale della storia dell’Unione Sovietica: la morte di Stalin. Intorno al lutto si mette in moto una gigantesca macchina che intreccia narrazione, rappresentazione, rito e che per più di tre giorni fa della morte del Capo il perno rotto intorno al quale il mondo smette di girare, i cittadini, in massa, si ferma no e piangono, i vertici della nomenclatura sovietica - affiancati da alcuni capi di stato in visita diplomatica - contemplano l’inizio della fine di un’era. Loznitsa per la prima volta trova negli archivi, accanto alle immagini in bianco e nero, anche serie di rulli a colori e, seguendo il criterio filologico, lascia che nel film confluiscano tutte insieme, costruendo, al momento del montaggio, stringhe musicali di alternanze cromatiche. Il sonoro, ancora una volta frutto della collaborazione con Vladimir Golovnitski, oltre la registrazione dei discorsi istituzionali, è lavoro creativo, costruzione discreta, contemporaneamente rigorosa e arbitraria, di un mondo scomparso, evocazione quasi medianica di un tempo che, oggi, sembra risuonare di eco foscamente familiari. (s.g.) “Penso a questo film come a uno studio visivo sulla natura del culto della personalità di Stalin e un tentativo di deostruire il rito che era alla base di quel regime sanguinario. È incredibile che nella Mosca di oggi, 2019, a sessant’anni dalla morte di Stalin migliaia di persone si radunino sulla sua tomba, il 5 di marzo, per depositare fiori e piangere la sua morte. Credo sia il mio dovere di filmmaker di utilizzare il potere dell’immagine documentaria per fare appello alle menti dei miei contemporanei e cercare la verità”.

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The Event
Sobytie

Regia: Sergei Loznitsa

Paesi Bassi, Belgio, 2015, 74’

Il film ricostruisce attraverso il montaggio di materiali in bianco e nero girati da opera tori professionisti le proteste e i movimenti di piazza sorti all’indomani del colpo di stato (conosciuto come “putsch di agosto”) che nell’agosto del 1991 tentò il rovesciamento del governo Gorbaciov e che fu all’origine, pochi mesi più tardi, del collasso dell’Unione Sovietica. Loznitsa torna a occuparsi di Leningrado (San Pietroburgo) in un momento cruciale per la Storia della nazione sovietica. Ancora al centro simbolico e figurativo c’è la piazza, ancora come scena principale di un cataclisma, una rivoluzione in mezzo alla quale è difficile distinguere vincitori e vinti, colpevoli e innocenti. Una serie di episodi raccontano il dipanarsi degli eventi lungo una serie di trasformazioni, di cambi di stato, di transizioni emotive che tracciano legami invisibili col presente e col futuro. (s.g.) “La mitologia costruita intorno agli eventi del Putsch del 1991 ha oscurato i fatti e solo ora, venticinque anni dopo, possiamo prendere distanza dalle idee sbagliate, strappar via gli strati della propaganda e delle speculazioni, e vedere e giudicare i fatti nel contesto contemporaneo. Quel che m’interessa di più non sono i politici, ma la gente. I protagonisti del film sono i cittadini di Lenin grado che hanno attraversato la sventura del colpo di stato dell’agosto 1991”

Animal Love
Tierische Liebe

Regia: Ulrich Seidl

Austria, 1995, 114’

Vienna, fine Novecento. Uomini e donne soli con i loro animali di fronte alla camera, che li filma frontalmente, a distanza. Ognuno di loro ha un animale domestico, cani, gatti, uccelli, roditori, conigli. Tutti i personaggi che amano i loro animali di un amore intenso passionale, quasi fossero esseri umani. Questa teoria di personaggi, che uno dopo l’altro raccontano e mostrano il loro sguardo carico di passione e desiderio per i propri animali domestici crea allora rapidamente una sensazione straniante, perturbante. I personaggi del film sono profondamente soli e l’animale diventa per loro qualcosa di più di un sostituto affettivo, un vero e proprio simulacro d’amore. Seidl costruisce uno dei suoi film più disturbanti e inquietanti, che ancora oggi è oggetto di polemiche e rifiuto. Una visione estrema, resa concreta da una forma apparentemente asciutta e austera, come sempre accade nel cinema del regista austriaco. (d.d.) “L’idea originale del film era molto radicale: ho immaginato un film in cui un uomo o una donna fa con il proprio animale domestico tutte le cose che una coppia di sposi avrebbe fatto: parlare, mangiare, coccolare, prestarsi attenzione, andare a letto insieme. E in tutto il film non ci sarebbe stata comunicazione tra le persone”.


Dont Look Back

Regia: D.A. Pennebaker

USA, 1967, 97’

Film straordinario e potentissimo, Dont Look Back (l’errore nel titolo è voluto), continua ad essere uno dei ritratti più radicali ed eccedenti di Bob Dylan, uno degli artisti che ha avuto più incarnazioni sullo schermo cinematografico. Filmato durante la tournée inglese del 1965, il film è la quintessenza dello stile filmico di D.A. Pennebaker, fondato sull’idea che il cinema sia uno strumento in costante movimento, come la vita delle persone catturate dalla macchina da presa. Il film è allora un ritratto nel vero senso del termine, vale a dire una esposizione sotto forma di frammenti brucianti di un “Io”, quello di Dylan artista e uomo, i cui gesti, le cui parole, il cui movimento continuo sono afferrati da un occhio cinematografico mai statico, fremente e sporco come l’icona fragile e potentissima di fronte a lui. Esporre significa anche spingersi verso il limite, verso il rischio di svelare i lati oscuri, le contraddizioni, i paradossi di una figura complessa come quella di Dylan. Ed è ciò che il film fa con una lucidità estrema, negando ogni apologia, ogni tentativo di costruzione del mito, ma al tempo stesso lasciando emergere i bagliori della sua poesia, della sua musica


First Love
Pierwsza milosc

Regia: Krzysztof Kieślowski

Polonia, 1974, 52’

Una giovane coppia, lei ancora minorenne. La ragazza scopre di essere incinta e di non poter interrompere la gravidanza. Lo sguardo attento di Kieślowski li segue in tutte le loro scelte, nelle loro decisioni, nelle pratiche quotidiane che costruiscono il loro rapporto, la loro storia d’amore. First Love è uno straordinario esempio del lavoro sul documentario di Kieślowski, un lavoro in cui in gioco c’è sempre la questione della vicinanza (non solo fisica) della macchina da presa ai corpi e ai soggetti filmati. Ciò che si narra è la storia di una lotta, del conflitto tra il desiderio umano e le regole del sistema e della società. Una lotta quotidiana che non sfocia nella rivolta, ma che non si configura mai come una semplice accettazione del mondo. Lo sguardo è allora concentrato su questo rapporto, in cui il desiderio e il sentimento si palesano di fronte alla macchina da presa attraverso i gesti concreti dei due giovani innamorati. (d.d.) «I protagonisti dei film di Kieślowski sono costantemente in lotta per le cose più semplici e si dimostrano o capaci di realizzare le loro passioni o vengono distrutti nel processo di perseguirle. Altrettanto difficile da realizzare è il desiderio di sistemarsi in qualche nicchia per vivere una vita tranquilla».


Harat

Regia: Sepideh Farsi

Iran, Francia, 2007, 87’

Un lungo viaggio, da Parigi all’Afghanistan; insieme, la regista del film e sua figlia. In ogni tappa Sepideh e Darya incontrano i membri della loro famiglia dispersa; ogni notte Sepideh prende spunto da quello che hanno visto per cantare una ninna nanna alla figlia. Le immagini del film sono le immagini girate da loro stesse, ognuna con la propria camera. Immagini fugaci, a volte sporche, mosse, condizionate dal viaggio, dallo spostamento, dai momenti vissuti. Immagini doppie, di una donna e di una bambina. Immagini che si richiamano, che diventano traccia, diario, appunto visivo, specchio e dialogo, finalmente racconto. Il racconto di una identità fragile, di chi vive lontano dal suo Paese di Origine (come Sepideh Farsi, che vive a Parigi) o come Darya, la cui curiosità per il mondo è di fatto il desiderio di conoscere se stessa e la propria origine. In Harat, Sepideh Farsi continua e sviluppa dunque una idea di cinema fatta attraverso i frammenti di una percezione personale del mondo, in cui ogni immagine è preziosa, può diventare il cristallo di un montaggio della memoria e della identità perdute.


Ice-Breaker
Brise-Glace

Regia: Jean Rouch, Raoul Ruiz, Titte Törnroth

Francia, Svezia, 1988, 90’

Lo stesso evento, o meglio lo stesso viaggio: tre sguardi diversi, tre racconti, tre film in uno. Il viaggio della nave rompighiaccio svedese Frej, la cui missione è liberare un battello imprigionato nel ghiaccio, diventa il punto di partenza per un film-caleidoscopio, dove l’attenzione di Rouch ai gesti umani (nell’episodio Bateau Givre), la fascinazione della regista finlandese Titte Tornoth per la nave e la sua potenza (in Hans Majestäts Statsisbrytaren Frej), e la reinvenzione fantastica del reale nell’episodio diretto da Ruiz (Histoires de glace) compongono un percorso articolato nel quale lo spettatore non cessa di salire a bordo di una nave diventata matrice di mille racconti possibili. Lo sguardo spogliato di ogni commento, di ogni parola, fatto solo di gesti e inquadrature precisissime di Rouch si rovescia nel racconto fantastico di un vascello errante ai confini del mondo nell’episodio diretto da Ruiz. Brise-glace è uno straordinario esempio di come il cinema del reale sia capace di creare mille immagini di un evento e anche la testimonianza dell’incontro tra grandissimi maestri del cinema del viaggio e dell’erranza.


Inexorable Time
Čas je neúprosný

Regia: Věra Chytilová

Repubblica Ceca, 1978, 16’

Il tempo della vita è inesorabile, inevitabile. Esso scorre verso la morte e, in una data epoca della vita di un essere umano, questa consapevolezza diventa più forte, costringe a riflettere sul tempo, sul passato, sugli attimi presenti e sulle mutazioni del proprio corpo. Věra Chytilová, uno degli sguardi più visionari del cinema cecoslovacco esplora queste riflessioni in una serie di incontri con persone in età avanzata, dispiegando un racconto dolceamaro, caratterizzato da un lavoro sui corpi e le parole che mostrano, con una flagranza assoluta, la delicatezza dello sguardo e al tempo stesso la malinconica poesia del vivere (o del sopravvivere) da parte di chi lotta quotidianamente contro le difficoltà del tempo che passa. Un film intimo che arricchisce la filmografia di una delle registe europee più originali della modernità, capace di concentrare l’attenzione sulla condizione femminile, raccontando in forme sempre diverse il ruolo della donna in una società che, sistematicamente, ne nega il valore e l’importanza.


In Comparison
Zum Vergleich

Regia: Harun Farocki

Germania, Austria, 2009, 61’

In Harun Farocki il montaggio è uno strumento di riflessione e di conoscenza, soprattutto è uno strumento che crea domande, che accosta elementi diversi per far risuonare questioni spesso invisibili. Dall’Africa all’Europa, il film mostra diverse tecnologie e pratiche nella costruzione dei mattoni, dal puro artigianato all’automazione robotica. Quello che può essere visto come un dettaglio marginale di una società – il mattone – diventa, attraverso il montaggio per corrispondenze di Farocki, un percorso per attraversare la molteplicità delle culture, le diversità nel rapporto con ciò che costituisce in senso originario il nostro rapporto con il mondo, l’abitare. (d.d.) «I mattoni sono le fondamenta della società. I mattoni sono semplicemente dischi che suonano molto a lungo. Come i di[1]schi, appaiono in serie, ma ogni mattone è leggermente diverso - non solo un altro mattone nel muro. I mattoni creano spazi, organizzano le relazioni sociali e conservano la conoscenza delle strutture sociali. Risuonano in un modo che ci dice se sono buoni o meno. I mattoni costituiscono il suono di base delle nostre società, ma non abbiamo ancora imparato ad ascoltarli»


Issa the Waiverer
Issa le Tisserand

Regia: Idrissa Ouedraogo

Francia, Burkina Faso, Canada, 1984, 19’

Filmato come una fiction ma con attori non professionisti, il film di Ouedraogo è un racconto-pamphlet, che mette in scena un elemento costantemente presente nel cinema del grande regista del Burkina Faso: il contrasto tra tradizione modernità, tra Africa e Europa. Issa, un tessitore tradizionale, si vede costretto per mantenere la propria famiglia a vendere abiti occidentali e abbandonare le pratiche tradizionali di tessitura. Sono proprio queste ad occupare la scena nella parte iniziale del film, in cui lo sguardo di Ouedraogo è attentissimo nel mostrare il lavoro dei telai manuali nei minimi dettagli, il movimento rapido delle mani e l’attenzione nello sguardo del tessitore, così come il film coglie il movimento brulicante di corpi del mercato attraverso inquadrature mirate, uno sguardo attento ai gesti e alle espressioni. La forma del documentario, ripensata attraverso il racconto morale, diventa dunque l’occasione per confezionare un piccolo capolavoro filmico, in cui ogni inquadratura, ogni gesto, ogni parola è essenziale e precisa, come sempre nel cinema di Ouedraogo.


Le Franc

Regia: Djibril Diop Mambéty

Francia, Senegal, Svizzera, 1994, 45’

Nonostante il budget molto limitato e il formato ridotto, Le Franc è uno dei film più famosi del regista senegalese Djibril Diop Mambéty. Strutturato come una commedia, il film è uno sguardo ironico e acuto sulla quotidianità di una città del Senegal e sul passaggio tra tradizione e modernità. È il primo tassello di una trilogia di storie su persone comuni, mai portata a termine dal regista. Il protagonista è un musicista, Marigo, il cui strumento tradizionale è stato confiscato dalla padrona di casa perché Marigo è in arretrato con l’affitto. Entrato in possesso di un biglietto della lotteria, l’uomo sogna di diventare ricco. La dimensione narrativa è solo il punto di partenza, ciò che Mambéty sviluppa è la capacità di immergere la finzione in un luogo reale, il mercato, che diventa lo spazio al tempo stesso concreto e simbolico di una economia ancora sospesa tra for[1]me antiche e modernità capitalista. Seguire le vicissitudini di Marigo permette allora allo spettatore di entrare in un luogo complesso e stratiforme, in cui si aggirano i corpi della povertà e del desiderio di riscatto. È in questo contrasto tra dimensione favolistica e sguardo iperrealista che risiede allora lo stile inconfondibile del regista senegalese.


Les Enfants Jouent A La Russie
The Kids Play Russia

Regia: Jean-Luc Godard

Svizzera, Francia, 1993, 60’

Nel pieno del progetto-monstre delle Histoire(s) du cinéma, Godard prosegue la sua personalissima indagine sulle immagini del Novecento attraverso un film che esplora la storia del cinema russo e sovietico. Non si tratta però di una ricostruzione storica ma, ancora una volta, di un ritratto e di un autoritratto. Il ritratto di un paese che emerge attraverso i suoi sguardi, le sue immagini, e le mille storie che il cinema sovietico ha costruito nel corso della sua parabola; l’autoritratto di Godard stesso, che non cessa di interrogare il cinema a partire dal suo amore per le immagini, scandagliando la sua memoria, immedesimandosi nel ruolo del principe Myškin, l’idiota dostoevskijano, mentre su tutto il film aleggia il fantasma di una misteriosa Anna Karenina. Attraverso una struttura originalissima, Godard affronta lo stretto legame tra le immagini del cinema russo e l’anima di un paese travagliato e complesso. Un film malinconico e affascinante, come le immagini cinematografiche, musicali e letterarie di cui è composto, e al tempo stesso un film folgorante per le associazioni, i montaggi e rimontaggi da cui è composto, che portano avanti l’idea della Storia come grande montaggio.



Phantom Limb

Regia: Jay Rosenblatt

USA, 2005, 28’

Il film di Jay Rosenblatt, uno dei nomi più importanti del cinema sperimentale statunitense contemporaneo si pone come una tappa importante del pluridecennale lavoro del regista newyorkese sulle immagini. A partire da un’esperienza traumatica personale, la morte del fratello, il film diventa una riflessione personale sull’elaborazione del lutto. Le immagini del film non sono però immagini personali, ma una sorta di viaggio visivo, diviso in capitoli, in cui l’immagine d’archivio entra in un rapporto particolare di montaggio con il testo del film, costruendo un discorso originale, creando una nuova possibilità per la forma cinematografica del Found Footage, in cui il dolore dell’assenza non trova se non altre immagini, che diventano appunto degli arti fantasma. «Phantom Limb usa questa storia personale come punto di partenza. Che si tratti di una perdita per morte o divorzio, le fasi del lutto sono le stesse.“Lepersone passano spesso attraverso la negazione, la rabbia, la contrattazione, la depressione e, in ultima analisi, una sorta di accettazione, al fine di guarire. Il film è liberamente strutturato secondo queste fasi”.


South
Sud

Regia: Chantal Akerman

Belgio, Finlandia, Francia, 1999, 70’

Un evento cambia tutto. Quello che inizialmente doveva essere un film sul tempo e il ritmo del sud degli Stati Uniti diventa un progetto completamente diverso dopo il linciaggio di James Byrd jr, un giovane afroamericano a Jasper, in Texas, ad opera di un gruppo di suprematisti bianchi. È la forza dell’evento a far sì che allora il film si trasformi nel tentativo da parte di Chantal Akerman di comprendere, di filmare i volti attoniti e sconvolti degli abitanti della piccola città durante lo sconvolgente funerale di Byrd, filmare gli spazi e i luoghi frequentati dai protagonisti di questa vicenda, attraversare i loro spazi e immergersi nella loro percezione del mondo. Il documentario diventa allora la forma attraverso la quale cerca di comprendere il dolore, cercare di raccontare le pratiche di vita che rendono possibile un gesto del genere; soprattutto, diventa il tentativo di rendere visibile l’invisibile, il pensiero, il desiderio, la paura, il sentimento dei membri di una comunità nata attraverso la sofferenza. (d.d.) «Quando si cerca di mostrare la realtà al cinema, la maggior parte delle volte è totalmente falsa. Ma quando mostri quello che succede nella mente delle persone, è molto cinematografico»


Starting Place
Point De Depart

Regia: Robert Kramer

Francia, 1993, 90’

Sin dal titolo, il film di Robert Kramer ci interpella per chiederci di trovare una posizione, un punto di partenza per un film che si sviluppa come film-saggio a partire proprio dalla domanda che in esso soggiace: da dove partire? Il film è un ritorno in Vietnam dopo 25 anni dall’ultimo viaggio del regista nel paese del sud est asiatico. Un viaggio dunque, ma soprattutto un ritorno. Un tornare che esprime la consapevolezza di non poter ritrovare ciò che si è lasciato. Kramer incontra persone che aveva già conosciuto, insieme a nuovi personaggi, ognuno con la sua storia da raccontare. Ma il viaggio è fatto di salti, di percorsi che rievocano e di nuove immagini. Il montaggio crea rapporti temporali dunque, ma tali rapporti non sono descritti; in ogni viaggio, in ogni ritorno la memoria crea fulminee congiunzioni tra passato e presente, mostrando in modo affascinante che ogni linearità, ogni sviluppo cronologicamente orientato di un viaggio, non è che una convenzione, una struttura creata a posteriori (d.d.) “Un giorno o l’altro tutti questi film che sto girando costituiranno un unico lungo film, una storia in continua evoluzione”.


The land of the wandering souls
La terre des ȃmes errantes

Regia: Rithy Panh

Francia, Cambogia, 2000, 102’

Realizzato prima ancora dei film che hanno dato a Rithy Panh la notorietà internazionale (come S21 – La macchina di morte dei khmer rossi o L’immagine mancante) The Land of the Wandering Souls si presenta come un capolavoro poco conosciuto ma altrettanto importante nel percorso del regista cambogiano, teso a esplorare il rapporto tra il passato traumatico della Cambogia e un presente fatto di tentativi di ritorno alla vita. A partire dall’installazione di un cavo a fibra ottica al confine tra Thailandia e Cambogia, lo sguardo del regista attraversa territori segnati dal recente passato, i massacri ad opera del regime di Pol-Pot. Scavare la terra significa far tornare alla luce le ossa delle vittime, e al tempo stesso significa per i sopravvissuti, molti dei quali lavorano alla grande opera, rivivere il loro passato, rendere visibili i fantasmi, le anime erranti dei tanti morti senza riposo. Un film straordinario sui fantasmi del passato, sulla necessità di fare i conti con quell’immagine mancante di un passato fatto di sofferenza e morte.


The Mistral
Pour Le Mistral

Regia: Joris Ivens

Francia, 1966, 33’

Fare del vento il soggetto di un film: Ivens non è nuovo a questo tipo di progetto, perché già Regen (Pioggia, 1929) era un film dedicato tutto alle mutazioni del paesaggio dovute al cadere dell’acqua. Ma mentre nel film precedente la pioggia diventava l’occasione di fare dell’immagine (e del montaggio) uno strumento di evocazione del suono, qui il vento si configura come l’occasione di una diversa sperimentazione. Il Mistral, il famoso vento che soffia dalla valle del Reno al Mediterraneo, anima e letteralmente muove territori e corpi, accompagnato dalla musica di Antoine Duhamel (il compositore icona della Nouvelle Vague); dagli scenari montuosi dell’inizio scendiamo nella valle, incontrando pastori, contadini e gli abitanti della città. Il montaggio scandisce una vita complessa, collettiva, che accomuna uomini e donne in luoghi diversi. Il vento letteralmente fa muovere questo mondo brulicante di oggetti, e il movimento, man mano che il film procede, somiglia sempre di più ad una danza, frenetica e collettiva. La poesia del film sta proprio in questo ritratto di un mondo danzante, euforico, come il nuovo cinema della modernità.


The New Ice Age
De nieuwe ijstijd

Regia: Johan van der Keuken

Paesi Bassi, 1974, 80’

Concepito come parte finale di una trilogia iniziata nel 1972, The New Ice Age si pone come un ulteriore tassello di quella indagine sulla percezione del mondo umano che, sin dagli esordi, caratterizza il lavoro fotografico e cinematografico di Van der Keuken. Ogni film della trilogia è strutturato come un film-saggio che mette a confronto due situazioni apparentemente lontane, filmate rispettivamente nel nord e nel sud del mondo. Qui il confronto proposto è tra una famiglia di operai olandesi in una fabbrica di gelati e una comunità in Perù. Il montaggio frenetico del film lavora sulle connessioni nascoste, sui contrasti brucianti tra due situazioni che presto rivelano il loro rapporto: in entrambi i casi, comunità marginali cercano la loro autonomia, lottano contro una società che tende ad escluderli, a mantenerli al di fuori della società. Secondo uno stile consolidato e personale, il film costruisce rapporti e riflessioni attraverso il montaggio, pensato da Van der Keuken come strumento che permette alle immagini di scontrarsi, di entrare in rapporti dialettici mai armonici; un montaggio che si rivela come un esempio di film poetico e politico.


Titicut Follie

Regia: Frederick Wiseman

USA, 1967, 84’

L’esordio folgorante di Frederick Wiseman continua ancora oggi a stupire per la sua potente modernità, per la forza delle sue immagini, per l’effetto perturbante che i corpi e il luogo del film – l’istituto per malattie mentali di Bridgewater, Massachusetts – produce senza interruzioni. È la dinamica stessa del film a produrre la sua potenza: la macchina da presa viaggia letteralmente da un luogo all’altro dell’ospedale, seguendo i vari personaggi del film (i pazienti internati, gli infermieri, le guardie), senza mai uscire da questo spazio enorme, complesso ma profondamente chiuso. Il metodo di Frederick Wiseman trova qui la sua prima applicazione: l’immagine si crea a partire dall’ascolto e dall’osservazione, scegliendo di volta in volta cosa inquadrare, chi seguire, cosa lasciare; la macchina da presa è letteralmente dentro le situazioni che filma e la distanza tra osservatore e osservato perde la sua consistenza. Lo sguardo è dunque al tempo stesso dentro e fuori le cose, vicinissimo senza aderire completamente. Questo movimento continuo scopre costantemente un mondo altrimenti invisibile lasciando intatta la sua eccedenza, il suo non poter essere mai totalmente visibile.


Toujours Plus

Regia: Luc Moullet

Francia, 1994, 25’

Lo stile sospeso tra il caustico e il surreale, lo sguardo ironico e al tempo stesso amaro caratterizzano da sempre il lavoro cinematografico di Luc Mullet, che fa del cinema uno strumento di indagine estetica e morale del mondo e delle sue immagini. Toujours Plus appartiene ad una serie di cortometraggi dedicati alla mutazione delle pratiche di vita nel mondo odierno. Al centro della narrazione stanno i supermercati, i grandi centri commerciali, che qui diventano i simulacri i sostituti dei luoghi sacri della classicità (i templi, le chiese), e della modernità (le sale cinematografiche). Il grande centro commerciale di Tolosa mostrato nel film (sorto appunto in uno spazio dove in precedenza si ergeva una chiesa) diventa il trionfo di una ipertrofia della merce, di una serie di gesti che si sintetizzano nella coazione al consumo, sempre maggiore, di prodotti. Attraverso il lavoro sugli spazi, sui ritmi, sui flussi dei grandi ipermercati, il film individua questi spazi come i templi del mondo contemporaneo.


Uku Ukai

Regia: Audrius Stonys

Lituania, 2006, 30’

Una operazione di maquillage, il respiro di un uomo che corre in un parco; altri uomini, donne, ragazzi che fanno esercizi, curano il proprio corpo, si prendono cura di loro stessi. L’immagine ne restituisce la concentrazione, lo sforzo, la fatica, e al tempo stesso, a volte, il lampo di un’estasi di gioia, di un’emozione intensa e interiore. Un cane che corre su una strada di campagna, una voce ipnotica che scandisce il senso di un sentire il mondo attraverso il corpo, la respirazione, il movimento. Uku Ukai è un film che fa leva sulla capacità dello spettatore di “sentire” un film, di immergersi in esso, di vivere una sorta di empatia con ciò che accade sullo schermo. Sentire quelle emozioni, quello sforzo, quella gioia, o la concentrazione della giovane ballerina che chiude il film. Un’immagine sensoriale, in cui la parola e la musica devono ad un certo punto interrompersi, per far spazio al silenzio (o al rumore del mondo). (d. d.) “Adoro il silenzio. Il silenzio è uno strumento potente nel linguaggio cinematografico. Dà spazio all’immaginazione e alla contemplazione. Il silenzio non è un buco nella colonna sonora. Ha molti colori e significati”

Boussole
Kомпа

Regia: Ana Taran

Svizzera, 2019, 36’

Che cosa vuol dire, davvero, essere in guerra? La regista torna nel suo paese, l’Ucraina, dopo una lunga assenza per provare a capire un conflitto solo apparentemente lontano. Il dialogo immaginato con un amico d’infanzia serve a riannodare le relazioni di senso di una realtà in cui stenta a riconoscersi. Attraverso Miroslav, muta assenza al fronte, la regista interroga il suo villaggio, i paesaggi, i ricordi della sua generazione per capire come la guerra sia potuta diventare qualcosa di normale, di necessario. Questa ricerca di senso diventa una ricerca sull’infanzia, la propria e quella di oggi: nei giochi si mischiano spensieratezza e presagi inquietanti, gli inni patriottici assumono un valore sinistro, le goffe imitazioni degli adulti evocano scenari terribilmente reali. La guerra impregna le scuole, i pomeriggi annoiati, i campi: è diventata qualcosa di intimamente vicino e per questo tanto più difficile da sfuggire. (


Détours

Regia: Arthur Miserez

Svizzera, 2019, 20’

La deviazione che ci propone il film è quella verso la Ginevra delle periferie isolate in cui emergono le crepe della società svizzera. Kenzy e i suoi amici sono nati e cresciuti in banlieu, la coscienza di classe e la frustrazione per una società che li marginalizza sono il tema quotidiano di conversazioni scandite dalla musica rap: da una parte la rabbia di vedersi stigmatizzati, dall’altra l’orgoglio della propria diversità. L’amicizia che lega i protagonisti diventa la base di un possibile riscatto, dove cercare valori alternativi a quelli dominanti, difendere un’altra idea di successo. Il regista riesce a penetrare in questo mondo e a creare uno spazio in cui i protagonisti possano raccontarsi liberamente, mentre la camera segue il ritmo delle chiacchierate e dell’errare quotidiano per il quartiere con sguardo diretto ed empatico.


Nottetempo

Regia: Jennifer Taylor

Svizzera, 2019, 20’

Il film racconta l’incontro tra la regista e Palermo, un incontro scandito dalle derive notturne alla ricerca di una chiave per capire questa città. Lo sguardo scruta e analizza lo spazio e i suoi abitanti, si lascia irretire, si impiglia in dialoghi imprevisti e nei riti della religiosità tradizionale, sempre però producendo uno scarto rispetto all’immagine attesa. In uno stato di vigile ipnosi, il film cerca la “nera schiena” di Palermo, gli interstizi della città che si dimentica di sé, la città addormentata con la sua vita segreta: quella degli oggetti abbandonati, delle strade deserte e delle vite che passano inavvertite. L’incontro si produce con coloro che condividono la condizione notturna di estraneità: un cortocircuito del diverso che suggerisce la possibilità di un terreno comune, per quanto fragile e improbabile.


Sparring Partners

Regia: Danny Biancardi

Italia, 2019, 51’

“Sparring partners” ci immerge nel mondo della boxe attraverso la storia di Benny, campione italiano che dopo una pesante squalifica per doping cerca il riscatto. La sua vicenda sembra quasi riflettersi nella parabola di Mario, giovanissima promessa che il campione si impegna ad allenare e portare al titolo. Le storie dei due pugili si incontrano nella palestra Cannata, dove condividono allenamenti durissimi sotto la guida di Salvo. Il film mette in evidenza la fisicità, la tensione allo sforzo ma anche la cura reciproca che caratterizzano la stretta relazione tra i tre uomini: la palestra diviene il luogo dove provare a costruire un’identità e un posto nel mondo. Il regista costruisce un ritratto intenso, parco di parole ma dove gesti e sguardi acquistano un peso enorme, un ritratto che mette lo spettatore a confronto con le fragilità, le emozioni e le contraddizioni dell’essere pugile.


Rising Of The Setting Sun

Regia: Julie Hössle

Italia, 2019, 52’

L'isola di Faial, nelle Azzorre, è un luogo dove la potenza della natura si manifesta nell’attività sismica continua e in paesaggi grandiosi. Allo stesso tempo è un territorio estremo e fragile, dove il cambiamento climatico e l’inquinamento sono prepotentemente diventati materia quotidiana, mettendo in crisi le certezze, la vita e il lavoro di chi ci vive. La regista racconta il delicato e precario equilibrio ambientale dell’isola attraverso le storie dei suoi abitanti, che assistono sgomenti agli stravolgimenti in corso. Con una grande sensibilità verso il paesaggio e le sue mutazioni, la regista ci offre il ritratto di una comunità obbligata a interrogarsi sull’ambiente, sul suo futuro e su come provare a fare la differenza.


I Re del Lago

Regia: Luca Aresi, Lorenzo Masci, Nicola Quinzani, Arianna Zampatti Fotografia: Luca Aresi, Lorenzo Masci, Nicola Quinzani, Arianna Zampatti

Italia, 2019, 32’

“I re del lago” sono otto ragazzi che partecipano a un progetto sperimentale di “walking therapy”: sei giorni di camminata intorno al Lago di Garda per provare a lasciarsi i problemi e le esperienze burrascose alle spalle. Con il passare dei giorni lo sforzo e la crescente vicinanza tra ragazzi, filmmaker e educatori aprono uno spazio di dialogo su cosa vuol dire cambiare. Il film racconta le tappe di questa esperienza dando grande spazio ai protagonisti stessi, alle loro parole e ai loro corpi di giovani uomini: ogni ragazzo porta con sé una action cam con cui registra scherzi, confessioni, insicurezze e desideri. La freschezza e la spontaneità di questo materiale permettono agli autori di tracciare di un ritratto intimo dei protagonisti che, senza giudicare, parla della ricerca di un’identità e di un cammino diverso.

Almost Human

Regia: Jeppe Rønde

Danimarca, 2019, 48’

Dieci scienziati e un robot s’interrogano sulla condizione umana all’interno di una cornice filmica di raffinata e appassionata ricerca. La voce di Stephen Fry è uno specchio delle brame sonoro che delinea l’immagine di una umanità labirintica. “Nella fine è il tuo inizio. Gli atomi nelle tue mani sono stati creati nel big bang. Sei esistito fin dall’inizio ed esisti ovunque; nel mare, nelle stelle – ed esisti nella fine. Un’onda può cancellare il tuo castello di sabbia, ma sarà semplicemente un nuovo inizio”. Da Robert Flaherty col suo non-autentico Nanook, all’anti-materia, ai Quantum Moves, Jeppe Rønde, regista del film, mette in scena passato, presente e futuro della specie umana concentrandoli in un saggio documentaristico sul senso ultimo di vita e rappresentazione. “Povero ‘uomo moderno’, tutti i suoi concetti si stanno sciogliendo sotto il sole artico. Si liquefanno e si decostruiscono nel non senso di una lingua spezzata”. Se la tecnologia viene da noi ed è in noi, forse è natura tanto quanto un albero e abbiamo lasciato un filo di Arianna a traccia del percorso compiuto per uccidere il Minotauro. Lo abbiamo poi ucciso? Percorreremo verso l’uscita questo tracciato ingarbugliato di concetto e manufatti che è la finita presenza della specie umana sulla Terra?

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Bird/Man

Regia: Mirna Everhard

Ungheria, Belgio, Portogallo, 2019, 9’

Un biologo solitario si prepara all’arrivo della primavera. Siamo nell’aeroporto di Budapest e il suo compito è di evitare che gli uccelli entrino nei motori dei grandi aerei. Il film segue, con un pulito e rapidissimo sguardo osservazionale, le azioni del biologo e quelle degli uccelli. La devozione dell’uno e l’apparente aura innocua rivestita dall’altro rendono il combattimento quasi incredibile. È un piccolo ma concentrato saggio filmico che illustra come il rapporto tra essere umano ed essere animale abbia trovato nuovi scopi e nuovi funzionamenti attraverso e dentro l’opportunità tecnologica. Il silenzio e la linearità della confezione stabiliscono un’asetticità di vedute che sembra tagliare completamente fuori la natura, rendendola in tutto e per tutto un problema culturale. Gli uccelli che rischiano di morire schiacciati nei motori diventano mero protocollo tecnico collaterale al funzionamento di un dato sistema di trasporto. Eppure la devozione dell’uomo sembra bypassare il protocollo proprio nel momento in cui lo mette in atto e ne rispetta i dettagli; a testimonianza di come il nodo natura/cultura, lungi dall’essere risolto, avvinca alla perfezione le controparti. Che forse così controparti non sono mai state.

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Earth
Erde

Regia: Panos Arvanitakis

Grecia, 2019, 50’

Le attività della Greek Public Power Corporation a Eordaea, nel nord della Grecia, hanno trasformato l’area, rendendola aliena, insolita; un processo senza fine, dove l’uomo e la macchina hanno posto le basi per un futuro minaccioso. Il duro lavoro e una speranza di fuga riportano un tocco di umanità in questo luogo. “Fin dall’inizio, era molto chiaro che non ci sarebbe stato nessun narratore. Le immagini e i suoni si raccontavano da soli con l’aiuto di pochi testi. Le informazioni non avrebbero avuto un ruolo importante. Il mio desiderio principale era quello di esplorare il luogo e le azioni dei lavoratori solo con l’osservazione. La forma finale del film è arrivata da questa esplorazione con la mia macchina fotografica, combinata con le idee che sono nate durante il processo”


Honeyland

Regia: Tamara Kotevska, Ljubomir Stefanov

Repubblica di Macedonia del Nord, 2019, 85’

Su un remoto altopiano dei Balcani, c’è un piccolo villaggio costruito nella roccia. Le uniche abitanti sono Hatidze, apicultrice, e sua madre. Quella di Hatidze sembra un’esistenza senza tempo, immersa com’è, nei ritmi delle stagioni e nella frugalità dei gesti. Un giorno la solitudine della donna viene interrotta dall’arrivo di una burrascosa famiglia rom, grazie alla quale il suo animo rifiorisce. Ljubomir Stefanov e Tamara Kotevska si sono dedicati alle riprese del film per tre anni, giungendo a un dramma di feroce, struggente, dolcezza. L’esalta[1]zione estetica di volti e paesaggi, viscerale più che contemplativa, non si ferma allo scrigno documentaristico di una pura esistenza residuale. La vita di Hatidze è la riserva di vetuste azioni e validi saperi sincreticamente mescolati a quelli della modernità. Dietro la sua vicenda umana vi è infatti la “crisi del miele” e, in generale, della conservazione della biodiversità. L’uso di tecniche non intensive o invasive consente infatti una interconnessione tra umanità e natura che non solo è rara, ma viene spacciata per improduttiva. A ben vedere però, questi protocolli esperienziali unici e di equilibrio tra le parti, sono degni di profonda attenzione dato che lì si nasconde una parte del futuro del Pianeta.

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Machini

Regia: Frank Mukunday, Tétshim

Repubblica Democratica del Congo, Belgio, 2019, 8’

Fin dagli albori della rivoluzione industriale, “la macchina” ha dovuto confrontarsi con l’errore umano. Insito nel sistema di produzione tecnologica e capitalistica, infatti, insiste il dato quotidiano delle sue morti bianche, degli immani disastri ambientali, oltre che di una meno quantificabile, almeno in termini statistici, perdita di un ritmo di lavoro adeguato alla forza muscolare umana. La macchina rivela presto il suo vero scopo: non tanto alleviare la fatica come sembrerebbe, ma incrementare la produzione e il profitto. “Con la forza delle cose / e soprattutto la macchina / siamo diventati esseri sonnambuli / esseri privati di Dio, i dannati della terra / e cavie nel mercato nero della storia / cavie della macchina”, così’ gli autori Frank Mukunday e il disegnatore Tétshim fanno eco all’ormai storico terzomondismo di Frantz Fanon, mettendo in piedi un sorprendente lavoro di animazione che ha per oggetto proprio “la macchina” o “la meccanizzazione delle forme di vita” che il colonialismo ha portato con sé. La pietra, la terra, l’ardesia, il gesso sono alcuni tra gli elementi che la tecnologia tende a soppiantare, ed è con tali materiali originali che donne e uomini, case e strade di un villaggio che fu, prendono vita, raccontandoci l’emblematica fine di un’epoca.

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Passion – Between Revolt And Resignation
Passion - Zwischen Revolte Und Resignation

Regia: Christian Labhart

Svizzera, 2019, 80’

Ghiacciai che si sciolgono, torri d’estrazione in costante trivellazione, gigantesche navi nell’atto d’irrompere tra gli anfratti veneziani insieme a piste sciistiche a Dubai, centri commerciali uguali in ogni dove, piazze notturne illuminate a giorno e immerse nel frastuono mediatico di un habitat che non dorme mai. Sono solo alcuni esempi dell’intensa raccolta visiva, unita a puntuali disquisizioni proprie ed altrui, che Christian Labhart definisce “un saggio sulla fragilità della mia esistenza nel capitalismo sfrenato”. Tra rivolta e rassegnazione c’è un punto in cui la mistica passione – cristologico patimento e irrefrenabile impegno insieme – conduce all’analisi della complessità contemporanea ridotta all’osso della sua dicotomia tra utopia ed esistente. E quello è l’esatto momento in cui, prendendo atto della frantumazione delle promesse di giustizia sociale, si produce l’avversativa di una qualche angolare forma di resistenza perenne. Se è vero che la notte dei bui tempi brechtiani non è mai trascorsa e non sappiamo chi verrà a raccogliere i suoi toccanti ‘j’accuse’, pieni d’amore, all’umana specie, è in quella notte di consapevole compianto che i semi dell’utopia sono pronti a dar frutto. “Because the night belongs to lovers. Because the night belongs to us”.

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River Tales
Cuentos Del Rio

Regia: Julie Schroell

Lussemburgo, 2019, 82’

Durante la pausa estiva, le rovine della fortezza che si affacciano sul villaggio di El Castillo sul fiume San Juan, in Nicaragua, si trasformano in un palcoscenico per un gruppo teatrale locale. Il fiume si configura geograficamente come un passaggio naturale tra gli oceani Atlantico e Pacifico. Racconta la storia di 500 anni di colonizzazione, sfruttamento delle risorse, commercio e trasporti e oltre 70 progetti di canali falliti. Il gruppo lavora a uno spettacolo teatrale sulla storia del fiume e sui numerosi viaggiatori che hanno cercato di prenderne il controllo. I pirati incontrano i conquistatori, gli ingegneri combattono contro i capi indigeni. Intorno allo spettacolo, i giovani attori riflettono sulla propria identità e sul futuro del Paese nel contesto del nuovo progetto cinese per costruire un canale. “El Castillo è diventata una seconda casa per me. Era importante per me fare un film che avrebbe avuto un impatto sulla popolazione locale e dare loro la possibilità di imparare qualcosa sulla propria storia”.

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Safety123
Sicherheit123

Regia: Julia Gutweniger, Florian Kofler

Italia, Austria, 2019, 73’

La protezione dalla natura è l'oggetto di un sistema complesso e articolato di azioni che ospita al suo interno numerosi settori, predisposti alla riduzione del rischio. A differenza del concetto di protezione della natura, che può vantare uno sfoggio paroliero, spesso esaurendosi a quello, il campo della protezione dalla natura si basa su processi, prove ed esperimenti scientifici molto più stringenti perché il fattore di rischio è riferito ai nostri corpi. Julia Gutweniger e Florian Kofler esplorano la principale catena delle Alpi dal punto di vista di coloro che si occupano di tale fattore. Un viaggio nei sistemi di sicurezza che, partecipando ai percorsi di oggetti e macchine atte a rendere operative la somma di conoscenze nuove e pregresse, si prende il tempo di osservare e capire come, e se, avvenga tale riduzione. Il rischio, infatti, non è altro che una previsione del futuro, e il futuro è a sua volta la somma delle decisioni prese nel passato e nel presente. Come si prendono tali decisioni? Con rigore e sensibilità il film rende conto di tale potere decisionale, anche attraverso la mutazione del paesaggio dovuta ai cambiamenti climatici e senza trascurare il non misurabile, eppure agentivo, fattore della fatalità.

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Vaarheim

Regia: Victor Ridley

UK, Belgio, 2019, 30’

Nel bel mezzo del Mare del Nord, ad est delle Isole Shetland, c’è un minuscolo arcipelago di nome Out Skerries dove, fino a poco tempo fa, vivevano 70 persone; oggi sono rimasti in 20. Gli stabilimenti ittici chiusero perché non c’erano più pesci e i pescatori, come il marito di Julie, dovettero cercar fortuna altrove. Col diminuire degli abitanti anche le scuole chiusero, così Julie dovette salutare anche ai suoi due figli adolescenti. Ciò che potrebbe sembrare una triste favola d’altri tempi è invece il presente di una giovane madre e della sua bambina, immerse in una dimensione spazio-temporale d’altrove. In alcuni luoghi della Terra i cambiamenti ecologici e il conseguente depauperamento della fauna hanno conseguenze tangibili e quotidiane nella vita delle persone. Nel paesaggio dai foschi grigi ed aspri verdi dove resiste ‘‘vaarheim - la nostra casa’, Julie attraversa le sue vuote stanze, in un fantasmagorico oblio di voci metalliche al telefono. Non tanto un ritorno a tempi patriarcali, quanto una storia di quieta resistenza e silenziosa disperazione riverbera nelle parole e nei gesti della giovane madre, mentre lontano, da qualche parte, si sperde all’orizzonte la presente assenza di un passato senza futuro.

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Welcome To Sodom

Regia: Florian Weigensamer, Christian Krönes

Austria, Ghana, 2018, 92’

Agbogbloshie, Accra si è dimostrato essere uno dei luoghi più velenosi al mondo. È la più grande discarica di rifiuti elettronici del pianeta. Circa 6000 donne, uomini e bambini vivono e lavorano qui. La chiamano “Sodoma”. Ogni anno circa 250.000 tonnellate di computer, smartphone, serbatoi di aria condizionata e altri dispositivi provenienti da un mondo lontano elettrificato e digitalizzato finiscono qui. Spediti illegalmente in Ghana. Questo è il luogo dove si manifesta la maledizione della follia del consumatore digitale. “Sodoma” è l’epilogo del nostro mondo moderno digitalizzato. E molto probabilmente sarà la destinazione finale del tablet, dello smartphone, del computer che comprerai domani.


Who made you?
Matkalla outou den laaksossa?

Regia: Iiris Härmä

Finlandia, 2019, 55’

“The uncanny valley”, in italiano “la valle perturbante”, è quell’area dell'Intelligenza Artificiale che si occupa di analizzare l’amabilità di robot sempre più antropomorfizzati insieme all’inesorabile senso di perturbante frustrazione derivata dal loro essere ‘quasi umani’. Il film ci conduce in Finlandia, Svezia, Spagna, Grecia e Giappone per esplorare lo scenario futuribile a partire dall’attuale stato della ricerca. A che punto è la sperimentazione robotica? Quali sono le implicazioni etiche del suo inarrestabile perfezionamento? Digital me, sex robot, antenne in grado di far ‘sentire’ i colori e donare ubiquità sensoriale a chi le incarna, sono solo alcuni degli esempi di un profondo cambiamento antropologico che rischia di essere deciso nelle chiuse stanze delle sperimentazioni aziendali, direzionate dal profitto economico. L’indiscutibile fascino di Star Trek, che delega la faticosa produzione dei beni di prima necessità a macchine e robot mentre gli esseri umani viaggiano nelle galassie infinite, sembra essersi arenato di fronte a una tecnologia della compensazione emotiva. L’Intelligenza Artificiale trasforma la nostra esistenza mentale e fisica come mai prima d’ora, ma qual è e quale deve diventare il suo vero scopo?

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Zumiriki

Regia: Oskar Alegria

Spagna, 2019, 123’

“Il mio è un sogno impossibile: filmare come filmava mio padre, come un pastore, senza pensare, senza tempo”. Oskar Alegria, regista, scrittore e protagonista del film, ha perduto un’isola e questo è lo statement con il quale si accinge ad andare alla sua ricerca. “L’isola in mezzo al fiume” (in basco: zumiriki) è stata inghiottita dalle acque a seguito della costruzione di una diga. “Oggi comincia il sogno, oggi termina la realtà” inizia così il naufragio nel profondo sé, sulle tracce di ‘reale’ impresse nella mente. Il diario/poema di bordo di Oscar è il canovaccio esperienziale in cui parole, suoni e immagini disegnano una mappa verso i ricordi. “Un giorno notai che [mio padre] aveva l’abitudine di filmare le piante e gli uccelli che stavano scomparendo, mentre contemporaneamente registrava i loro nomi in basco antico. Fu allora che appresi che se le parole muoiono, anche gli uccelli e le piante svaniscono. Filmare era allora un gesto per salvare il nostro mondo antico. Filmare per vivere due volte. Filmare per sentire la nostra voce di bambini” [O. Alegria]. Dunque l’habitat ferito muore solo quando ce ne dimentichiamo. E questo film, nella sua minuta e immane avventura riflessiva, rivela come nascondersi al tempo, facendo dell’umana sopravvivenza un atto poetico.

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199 Little Heroes

Regia: Sigrid Klausmann e altri

Germania, 2018, 99’

199 Little Heroes è un progetto di film ad episodi ambientato in tutto il mondo e patrocinato dalla Commissione tedesca dell’Unesco. L’obiettivo è ritrarre bambini di diversi paesi del mondo mentre vanno a scuola. La strada per la scuola diventa simbolo del percorso di vita, tramite l’educazione, per un futuro migliore. Per quanto diversi siano i contesti mostrati, storie familiari e personalità, i giovani protagonisti di questi 9 cortometraggi hanno sogni, speranze e paure simili tra loro e sono accomunati dal desiderio di conoscere e cambiare il mondo. Dopo il film, in collaborazione con Global Friends, laboratorio di scrittura creativa per bambini. Carta, penna e francobolli: racconta la tua giornata a un bambino dall’altra parte del mondo!


Inventing Tomorrow

Regia: Laura Nix

USA, 2018, 55’

Il film ci fa incontrare un gruppo di giovani e appassionati innovatori di tutto il mondo che stanno ideando soluzioni all’avanguardia per affrontare le minacce ambientali nel mondo. Fai un viaggio con questi ragazzi, anche loro alle prese con tutti i dubbi e le insicurezze che caratterizzano l’adolescenza, mentre preparano i loro progetti scientifici per la più grande riunione di scienziati delle scuole superiori del mondo, la Intel International Science and Engineering Fair (ISEF), un programma della Society for Science & the Public.


Kamchatka Bears. Life Begins

Regia: Irina Zhuravleva, Vladislav Grishin

Russia, 2018, 52’

l South Kamchatka Federal Sanctuary viene chiamato “paradiso degli orsi”. Per sette mesi i registi hanno osservato e filmato le vite quotidiane dei cuccioli appena nati. Kamchatka Bears è un documentario naturalistico ma diverso da tutti gli altri: la musica, i suoni della natura e l’assenza di una voce umana permettono allo spettatore di immergersi nella bellezza della natura selvaggia, di sentire la sua presenza tra vulcani, fiumi e animali e di sperimentare un confine importante, oltre il quale gli umani non dovrebbero interferire.


Rediscovery

Regia: Phie Ambo

Danimarca, 2019, 77’

47 bambini vengono lasciati liberi in uno spazio abbandonato alla periferia di Copenaghen, dove la natura ha ripreso il sopravvento. È in questo luogo che per dieci settimane la natura sarà la loro insegnante. I protagonisti del film sono i bambini, accompagnati dalla voce della natura – narratrice d’eccezione in questo film – che racconta e pone domande: “Cosa significa imparare qualcosa? Che cosa si impara quando sentiamo il vento tra i capelli o la pioggia sulle guance? Cosa sentiamo arrampicandoci e sedendoci in cima al castagno più alto? Cosa rimane di questa esperienza?”

 

A Dog Called Money

Regia: Seamus Murphy

Irlanda, Gran Bretagna, 2019, 90’ù

La cantautrice e musicista PJ Harvey e il pluripremiato fotografo Seamus Murphy hanno dato vita a una straordinaria collaborazione. In cerca di esperienze dirette su alcuni paesi sui quali intendeva scrivere, PJ Harvey ha accompagnato Murphy in viaggio in Afghanistan, Kosovo, Washington, per realizzare alcuni dei suoi reportage internazionali. Mentre Murphy raccoglieva immagini, la musicista raccoglieva parole. Una volta a casa le parole sono diventate poesie e canzoni, poi un disco, registrato alla Somerset House di Londra. In un ambiente costruito ad hoc, dietro uno specchio semiriflettente, il pubblico – dopo aver consegnato le proprie fotocamere – è stato invitato ad assistere alla produzione, che sarebbe durata cinque settimane, come fosse una scultura sonora live.


John & Yoko: Above Us Only Sky

Regia: Michael Epstein

Gran Bretagna, 2018, 90’

Above Us Only Sky rivela la profonda collaborazione creativa fra John Lennon e Yoko Ono nella produzione dell’album Imagine, rievocando quell’epoca ma anche mettendo in risalto quanto quella musica e quel messaggio parlino ancora al pubblico di oggi. Grazie alla piena cooperazione della John Lennon Estate e alla piena disponibilità di Yoko Ono, il film esamina come l’attivismo, la vita politica, la musica della coppia fossero intrinsecamente collegati. Grazie a filmati inediti di John e Yoko, interviste nuove e materiali d’archivio, il film illustra come il messaggio dell’album invitasse a una forma di impegno radicale e come quest’opera si rivela più attuale che mai.

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Lisbon Beat
Batida De Lisboa

Regia: Rita Maia, Vasco Viana

Portogallo, 2019, 65

Un viaggio attraverso la periferia di Lisbona ma anche attraverso le vite di alcuni musicisti in cerca del “posto giusto” in una città caratterizzata da complesse questioni identitarie. Luogo di incontro fra generazioni e background diversi, dall’Angola a São Tomé, da Capo Verde alla Guinea-Bissau, che prendono corpo attraverso vecchi musicisti e giovani produttori.

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Sea-Watch 3

Regia: Nadia Kailouli, Jonas Schreijäg

Germania, 2019, 112’

Arrestata dopo aver portato un gruppo di rifugiati sulla costa italiana – la capitana tedesca Carola Rackete ha fatto notizia a livello internazionale lo scorso giugno, quando ha attraccato la nave di salvataggio “Sea-Watch 3” nel porto di Lampedusa. Ma che cosa è realmente successo nel corso delle quasi tre settimane di stand-off della nave in mezzo al Mediterraneo? Il documentario precipita lo spettatore nel cuore degli eventi. I due registi erano a bordo per tutta la durata del viaggio. Hanno effettuato riprese mentre l’equipaggio della “Sea-Watch 3” salvava 53 persone su un gommone alla deriva. Hanno continuato a filmare quando la guardia costiera italiana è salita a bordo per consegnare una comunicazione firmata dall’allora Ministro degli Interni Matteo Salvini. Hanno filmato la vita quotidiana in condizioni di emergenza, con particolare attenzione al ruolo ricoperto dai medici e dal personale di bordo. Hanno osservato la capitana mentre prendeva le difficili decisioni da cui dipendevano le sorti di tutte le vite umane sulla nave. Ma soprattutto hanno ascoltato i profughi raccontare da cosa erano fuggiti e gli orrori raccapriccianti della Libia.

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Celebration

Regia: Olivier Meyrou

Francia, 2018, 73’

Mentre Yves Saint Laurent, tra i più grandi stilisti parigini di alta moda, disegna i bozzetti della sua collezione finale, Pierre Bergé gestisce dietro le quinte una serie di eventi per celebrare l’icona della moda come mito moderno. Immergendosi all’interno della casa di moda durante gli ultimi due anni di YSL, il documentarista Olivier Meyrou filma il duo YSL-Bergé. In questo ritratto degli ultimi anni di YSL, il film offre una panoramica di osservazione dietro le quinte, in cui Saint Laurent sembra fragile e a volte un po’ distante.

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Cunningham 3d

Regia: Alla Kovgan

Germania, Francia, USA, 2019, 93’

Nel 2019 ricorre il centenario del leggendario coreografo americano Merce Cunningham. Questo poetico film ripercorre l’evoluzione artistica di Cunningham nell’arco di tre decenni densi di rischi e scoperte (1944-1972) a partire dai primi anni come ballerino che lotta per affermarsi nella New York del dopoguerra, fino a quando si è impone come uno dei coreografi più visionari e influenti del mondo. Grazie alla tecnologia 3D la filosofia e le vicende di Cunningham vengono intrecciate, dando luogo a un percorso in profondità all’interno del mondo del coreografo.


Elliott Erwitt, Silence Sounds Good

Regia: Adriana Lopez Sanfeliu

Francia, Spagna, 2019, 61’

«Sono serio sul non prendersi sul serio», dichiara Elliott Erwitt durante l’intervista dedicata alla sua vita e alle sue opere. Il film è pieno di frasi lapidarie come questa, rivelatrici della propensione del fotografo della Magnum alla battuta e all’osservazione caustica, per non parlare del suo gusto per l’ambiguità. Un’altra cosa evidente è l’inesauribile energia di Erwitt: quasi novantenne all’epoca delle riprese. Lo seguiamo in viaggio a Cuba come inviato, mentre prepara un nuovo libro e si affaccenda in giro per New York City.


One More Jump

Regia: Emanuele Gerosa

Italia, Svizzera, Palestina, 2019, 83’

La disciplina del parkour richiede all’atleta di eseguire un percorso superando ogni ostacolo con velocità ed eleganza, utilizzando straordinarie doti acrobatiche per saltare, arrampicare, colpire, ma anche accarezzare gli elementi del paesaggio urbano. Così facendo si inverte la logica urbanistica, che incanala i pedoni in circuiti programmati e limitanti. Jehad e Abdallah sono due valenti “tracciatori” (così si definiscono gli atleti di parkour). Un giorno il destino li ha divisi e oggi sono separati dal Mediterraneo. Jehad è rimasto nella nativa Gaza, alleva la nuova generazione del Gaza Parkour Team e si arrovella per ottenere quel passaporto che potrebbe aprirgli le porte del mondo. Abdallah vive e si allena a Firenze. Pur vivendo in contesti così diversi, entrambi i giovani provano sulla loro pelle i diversi significati della parola “resistenza”. One More Jump compone con l’eleganza di una performance di parkour il ritratto, doppio e speculare, di due esistenze difficili, in cui sogni e speranze - ingredienti essenziali della gioventù - vengono messi a dura prova dai vincoli di un mondo in cui l’unica libertà concessa sembra essere quella di eseguire un salto mortale ricadendo in piedi.

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The Cave

Regia: Feras Fayyad

Danimarca, Germania, USA, Qatar, Siria, 2019, 95’

La vita in un ospedale ha sempre il ritmo frenetico della continua lotta contro il tempo, ma nell’ospedale siriano di Ghouta (vicino a Damasco) il personale medico e paramedico porta avanti i propri compiti in condizioni che vanno oltre ogni immaginazione. Ambulatori e sale operatorie, interamente sotterranei per resistere ai bombardamenti, sono angusti e perennemente affollati, i medicinali sono terminati e il cibo scarseggia. Inarrestabili raid aerei provocano un afflusso continuo di feriti tra cui si contano, numerosissimi, bambini, donne, civili. Feras Fayyad (già nominato agli Oscar per il suo Last Men in Aleppo) ha individuato in ‘the Cave’ (la caverna, così è stato ribattezzato l’ospedale) il punto prescelto da cui mostrarci la sua Siria: un luogo dell’accoglienza, della cura, del rifugio, forse della salvezza. Lontano dagli scontri e, proprio per questo, al centro del conflitto. Nella logica atroce di giorni tutti uguali e tutti rischiosissimi, emerge, tra le altre, la figura della direttrice dell’ospedale, la dott.ssa Amani, una giovane dall’aspetto fragile ma dalla determinazione incrollabile che guida il proprio team attraverso ogni tipo di difficoltà, materiali e psicologiche, non ultimo il preconcetto che una donna non debba avere simili occupazioni. Il suo volto, segnato dalla fatica ma illuminato dalla forza di volontà, è l’emblema di un’umanità che ha deciso di mantenersi tale aprendo le proprie porte a tutti, tranne che alla brutalità.

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